domenica 19 marzo 2017

Gli italiani in filosofia: una questione di stile. Su "Mezzo secolo di filosofia italiana", di Massimo Ferrari

(Questo post è uscito in una versione leggermente diversa su "la Stampa" del 25/06/2017)

Franca D'Agostini


C’è una filosofia “italiana”, dotata di specifici caratteri distintivi? Nell’epoca della fine delle mentalità e delle culture nazionali la domanda sembra bizzarra. Eppure da qualche tempo circola l’idea che esista un Italian thinking particolarmente efficace, legato alla filosofia politica di Giorgio Agamben e di altri autori che oggi riscuotono un certo successo in ambito internazionale. L’idea ha suscitato comprensibili perplessità. A prima vista, sembrerebbe il tentativo di contrastare l’egemonia della filosofia di lingua inglese, dicendo (con qualche ragione) «ci siamo anche noi!». È ovvio però che ‘noi’, come ‘noi’, esistiamo in modo molto precario, e i teorici ed esponenti dell’Italian theory (a cominciare da Giovanna Borradori, autrice nel 1988 di Recoding Metaphysics. The New Italian Philosophy, che ha lanciato l’idea) lo sanno benissimo.

Nonostante ciò, forse c’è una sorta di «italianità» di cui è utile tenere conto in filosofia. E l’intuizione trova conferma nell’accurata ricostruzione storica compiuta da Massimo Ferrari con Mezzo secolo di filosofia italiana. Dal secondo dopoguerra al nuovo millennio (il Mulino).

Lo sguardo disincantato e niente affatto trionfalistico di Ferrari arriva a scoprire alcuni caratteri di base del lavoro degli italiani oggi che sono diversi da quelli teorizzati per esempio da Roberto Esposito (uno dei più affezionati all’idea dell’Italian Theory), ma sono altrettanto positivi e incoraggianti, anzi, direi: lo sono di più. L’immagine finale che ci restituisce l’Epilogo, e che riguarda gli ultimissimi anni, ci fa vedere bene che pur attraverso le difficoltà, la marginalità e gli inciampi che ben conosciamo, c’è uno «stile» riconoscibile degli italiani in filosofia, e uno stile niente affatto disprezzabile, sia sul piano dell’etica della ricerca, sia su quello della professionalità.

Ferrari riconosce che il lavoro storiografico, specie quando riguarda il passato recente, ha una incerta forma di oggettività. Nel libro si avverte con chiarezza però un sistematico sforzo di mantenersi neutrali, rispetto per esempio a quella doppia articolazione, «analitica e continentale», che ha guidato i decenni centrali del secolo o al conflitto (più tipicamente italiano) tra le varie forme di spiritualismo di matrice cattolica e la crescita di una filosofia della scienza di orientamento più schiettamente laico e materialista.

Al di là delle possibili lacune, fisiologiche in questo tipo di lavori (per esempio: non si parla della filosofia femminista, che in Italia ha avuto una notevole importanza), sono particolarmente interessanti, nel libro, la ricostruzione del lento distanziarsi della cultura italiana dall’idealismo, l’incerto sviluppo del programma del «pensiero debole», la nascita di vitali scuole di logica e di filosofia della scienza , la tardiva fortuna dell’etica.

In tutti questi casi, è l’incontro con le filosofie di altri paesi ad aver determinato e orientato il lavoro dei filosofi italiani. Ma l’analisi di Ferrari rivela che è sbagliato leggere in ciò la conferma di una italianità malata, affetta da inguaribile mancanza di originalità ed endemica esterofilia. Al contrario, proprio la maturazione di uno sguardo ampio e sovranazionale è ciò che ha fatto la fortuna della filosofia in Italia.

Anche l’accusa di ostinato storicismo che gli italiani spesso rivolgono a se stessi, alla luce dei più recenti sviluppi dovrebbe mutare segno. Certamente, l’idea di insegnare (e trattare) la filosofia sempre e solo attraverso la sua storia non è una buona idea. Ma non sempre ha prodotto cattivi esiti. Un primo risultato è stato l’alto livello di professionalità raggiunto dagli storici italiani di filosofia. Ma non soltanto: «la storia della filosofia è diventata […] un elemento caratteristico, una sorta di “stile” – appunto – che senza pretendere di imporsi suscita interesse, talvolta emulazione, e in ogni caso favorisce un’integrazione sempre più evidente con la filosofia praticata altrove». E lo ‘stile’ di cui si tratta è una fondamentale cautela, che ci evita di annunciare trionfali ‘scoperte’ di idee invece ben note alla tradizione: un difetto che noi italiani riscontriamo abbastanza spesso nel lavoro di quei filosofi analitici abituati a pensare che il mondo incominci con Russell e Frege.

In pratica, l’attenzione ad altre esperienze filosofiche, associata alla consapevolezza che molto è stato fatto per la filosofia nella storia, hanno prodotto un’auto-limitazione che non è solo tendenza al vassallaggio, piuttosto «la sobria consapevolezza che l’originalità teorica è comunque, e non solo in Italia, un bene abbastanza raro». Tale consapevolezza non si è tradotta in una perdita di teoria: al contrario, «se si prescinde dalla penalizzazione linguistica», nota Ferrari, anche nell’ambito della ricerca teorica «una parte certo non cospicua ma nemmeno irrilevante della produzione filosofica italiana […] si colloca su un livello non così lontano da quella straniera e a volte su un gradino più elevato». E in pratica, «sembra che i filosofi italiani maggiormente inseriti nel circuito internazionale mantengano un’encomiabile disponibilità ad ascoltare i propri colleghi, mentre non sempre (a essere ottimisti) lo stesso vale per quegli interlocutori che candidamente confessano di non leggere l’italiano». (Aggiungerei: anche quando gli autori di cui si parla sono Machiavelli o Leopardi.)

Ferrari giustamente evita di formulare diagnostiche complessive, ma forse qualche preliminare intuizione ci è consentita. I teorici dell’Italian  Thinking identificano l’italianità in una forma di filosofia politica che non è solo teoria ma è anche, come dice Esposito, «pensiero vivente». Certamente, la scarsa forza dell’identità collettiva in un paese troppo a lungo frammentato e perciò non abituato ai valori civili della democrazia ha fatto sì che i migliori filosofi in Italia, nel tempo, si impegnassero all’edificazione dei concittadini e dei governanti, e di qui la vitalità della filosofia pubblica in Italia. Ma si può completare il giudizio: forse questa stessa frammentazione ha anche agito in un altro senso, rendendo gli italiani «stranieri in patria e cittadini del mondo»; ed è probabilmente un’ottima condizione per fare filosofia.

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