Franca D'Agostini
C’è una filosofia “italiana”, dotata di specifici caratteri
distintivi? Nell’epoca della fine delle mentalità e delle culture nazionali la
domanda sembra bizzarra. Eppure da qualche tempo circola l’idea che esista un Italian thinking particolarmente
efficace, legato alla filosofia politica di Giorgio Agamben e di altri autori che
oggi riscuotono un certo successo in ambito internazionale. L’idea ha suscitato
comprensibili perplessità. A prima vista, sembrerebbe il tentativo di
contrastare l’egemonia della filosofia di lingua inglese, dicendo (con qualche
ragione) «ci siamo anche noi!». È ovvio però che ‘noi’, come ‘noi’, esistiamo
in modo molto precario, e i teorici ed esponenti dell’Italian theory (a cominciare da Giovanna Borradori, autrice nel
1988 di Recoding Metaphysics. The New
Italian Philosophy, che ha lanciato l’idea) lo sanno benissimo.
Nonostante ciò, forse c’è una sorta di «italianità» di cui è
utile tenere conto in filosofia. E l’intuizione trova conferma nell’accurata
ricostruzione storica compiuta da Massimo Ferrari con Mezzo secolo di filosofia italiana. Dal secondo dopoguerra al nuovo millennio
(il Mulino).
Lo sguardo disincantato e niente affatto trionfalistico di
Ferrari arriva a scoprire alcuni caratteri di base del lavoro degli italiani oggi
che sono diversi da quelli teorizzati per esempio da Roberto Esposito (uno dei
più affezionati all’idea dell’Italian
Theory), ma sono altrettanto positivi e incoraggianti, anzi, direi: lo sono
di più. L’immagine finale che ci restituisce l’Epilogo, e che riguarda gli
ultimissimi anni, ci fa vedere bene che pur attraverso le difficoltà, la
marginalità e gli inciampi che ben conosciamo, c’è uno «stile» riconoscibile degli
italiani in filosofia, e uno stile niente affatto disprezzabile, sia sul piano
dell’etica della ricerca, sia su quello della professionalità.
Ferrari riconosce che il lavoro storiografico, specie quando
riguarda il passato recente, ha una incerta forma di oggettività. Nel libro si
avverte con chiarezza però un sistematico sforzo di mantenersi neutrali,
rispetto per esempio a quella doppia articolazione, «analitica e continentale»,
che ha guidato i decenni centrali del secolo o al conflitto (più tipicamente
italiano) tra le varie forme di spiritualismo di matrice cattolica e la
crescita di una filosofia della scienza di orientamento più schiettamente laico
e materialista.
Al di là delle possibili lacune, fisiologiche in questo tipo
di lavori (per esempio: non si parla della filosofia femminista, che in Italia ha
avuto una notevole importanza), sono particolarmente interessanti, nel libro,
la ricostruzione del lento distanziarsi della cultura italiana dall’idealismo, l’incerto
sviluppo del programma del «pensiero debole», la nascita di vitali scuole di
logica e di filosofia della scienza , la tardiva fortuna dell’etica.
In tutti questi casi, è l’incontro con le filosofie di altri
paesi ad aver determinato e orientato il lavoro dei filosofi italiani. Ma l’analisi
di Ferrari rivela che è sbagliato leggere in ciò la conferma di una italianità
malata, affetta da inguaribile mancanza di originalità ed endemica esterofilia.
Al contrario, proprio la maturazione di uno sguardo ampio e sovranazionale è
ciò che ha fatto la fortuna della filosofia in Italia.
Anche l’accusa di ostinato storicismo che gli italiani
spesso rivolgono a se stessi, alla luce dei più recenti sviluppi dovrebbe
mutare segno. Certamente, l’idea di insegnare (e trattare) la filosofia sempre
e solo attraverso la sua storia non è una buona idea. Ma non sempre ha prodotto
cattivi esiti. Un primo risultato è stato l’alto livello di professionalità raggiunto
dagli storici italiani di filosofia. Ma non soltanto: «la storia della
filosofia è diventata […] un elemento caratteristico, una sorta di “stile” –
appunto – che senza pretendere di imporsi suscita interesse, talvolta
emulazione, e in ogni caso favorisce un’integrazione sempre più evidente con la
filosofia praticata altrove». E lo ‘stile’ di cui si tratta è una fondamentale cautela,
che ci evita di annunciare trionfali ‘scoperte’ di idee invece ben note alla
tradizione: un difetto che noi italiani riscontriamo abbastanza spesso nel
lavoro di quei filosofi analitici abituati a pensare che il mondo incominci con
Russell e Frege.
In pratica, l’attenzione ad altre esperienze filosofiche, associata
alla consapevolezza che molto è stato fatto per la filosofia nella storia, hanno
prodotto un’auto-limitazione che non è solo tendenza al vassallaggio, piuttosto
«la sobria consapevolezza che l’originalità teorica è comunque, e non solo in
Italia, un bene abbastanza raro». Tale consapevolezza non si è tradotta in una
perdita di teoria: al contrario, «se si prescinde dalla penalizzazione
linguistica», nota Ferrari, anche nell’ambito della ricerca teorica «una parte
certo non cospicua ma nemmeno irrilevante della produzione filosofica italiana
[…] si colloca su un livello non così lontano da quella straniera e a volte su
un gradino più elevato». E in pratica, «sembra che i filosofi italiani
maggiormente inseriti nel circuito internazionale mantengano un’encomiabile
disponibilità ad ascoltare i propri colleghi, mentre non sempre (a essere
ottimisti) lo stesso vale per quegli interlocutori che candidamente confessano
di non leggere l’italiano». (Aggiungerei: anche quando gli autori di cui si
parla sono Machiavelli o Leopardi.)
Ferrari giustamente evita di formulare diagnostiche
complessive, ma forse qualche preliminare intuizione ci è consentita. I teorici
dell’Italian Thinking identificano
l’italianità in una forma di filosofia politica che non è solo teoria ma è
anche, come dice Esposito, «pensiero vivente». Certamente, la scarsa forza
dell’identità collettiva in un paese troppo a lungo frammentato e perciò non
abituato ai valori civili della democrazia ha fatto sì che i migliori filosofi in
Italia, nel tempo, si impegnassero all’edificazione dei concittadini e dei
governanti, e di qui la vitalità della filosofia pubblica in Italia. Ma si può
completare il giudizio: forse questa stessa frammentazione ha anche agito in un
altro senso, rendendo gli italiani «stranieri in patria e cittadini del mondo»;
ed è probabilmente un’ottima condizione per fare filosofia.
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