venerdì 30 giugno 2017

Uccidersi per difendere la verità? Perché no?


Intervista a
Nicla Vassallo

Di Riccardo Malatto[1]
Genova, 26/06/2017





Nicla Vassallo, filosofa molto nota in Italia e altrove, si è specializzata al King’s College di Londra ed è attualmente professore ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Genova e associata dell’ISEM–CNR. La sua figura di intellettuale si distingue per l'eleganza intellettuale, il rigore e insieme la chiara consapevolezza della propria funzione pubblica. Il suo pensiero e le sue ricerche scientifiche hanno portato novità rilevanti nei settori dell’epistemologia, della filosofia della conoscenza, della metafisica, dei gender studies.
Autrice, coautrice o curatrice di ben oltre centocinquanta pubblicazioni, della sua importante produzione scientifica, in italiano e in inglese, ci limitiamo a ricordare i volumi più recenti: Filosofia delle donne (Laterza 2007), Teoria della conoscenza (Laterza 2008), Knowledge, Language, and Interpretation (Ontos Verlag 2008), Donna m’apparve (Codice Edizioni 2009), Piccolo trattato di epistemologia (Codice Edizioni 2010), Terza cultura (il Saggiatore 2011), Per sentito dire (Feltrinelli 2011), Conversazioni (Mimesis 2012), Reason and Rationality (Ontos Verlag 2012), Frege on Thinking and Its Epistemic Significance (Lexington–Rowman & Littlefield 2015), Il matrimonio omosessuale è contro natura: Falso! (Laterza 2015), Breve viaggio tra scienza e tecnologia con etica e donne (Orthotes 2015), Meta-Philosophical Reflection on Feminist Philosophies of Science (Springer, New York 2016).
Al presente lavora su diversi aspetti dei rapporti affettivi e amorosi in relazione alle istituzioni, specie eteronormative, e sulla sovrabbondanza, nella nostra società, di semplificazioni stereotipiche riguardo il sex&gender in rapporto alla complessità dell’identità metafisica e dell’identità personale. Inoltre, un tema tuttora costante nella ricerca di Nicla Vassallo, è l'indagine delle questioni legate al problema dell’ignoranza, in che modo si manifesta, quali sono le cause e i modi per porvi rimedio. Ha vinto il premio di filosofia “Viaggio a Siracusa” nel 2011. Dal Fai è stata giudicata la “filosofa italiana dalla brillante carriera internazionale”. Fa parte di consigli direttivi e comitati scientifici presso autorevoli riviste specialistiche, ed è membro attivo di numerose associazioni e fondazioni. Scrive di cultura e filosofia su diverse testate giornalistiche. Ha pubblicato due raccolte di poesie, Orlando in ordine sparso (Mimesis 2013) e Metafisiche insofferenti per donzelle insolenti (Mimesis 2017).
Quella che segue è un’intervista realizzata da uno studente della facoltà di Filosofia di Genova, incentrata sul rapporto tra filosofia e vita: un rapporto in cui Nicla Vassallo crede profondamente, al punto da pensare alla propria stessa vita come un impegno irriducibile alla difesa della verità e della conoscenza, secondo l’insegnamento degli antichi e dei più grandi tra i filosofi.

Al giovane che fa filosofa viene a volte rimproverato dai suoi colleghi iscritti a discipline scientifiche, di rimanere per sempre uno studioso di filosofia, e di non diventare mai un “vero professionista”, ossia un ingegnere, un medico, un avvocato, un fisico, un matematico ecc.

Dipende sempre con chi studia e dove si studia. Mentre in alcuni tempi bui abbiamo avuto l’onore di un Cartesio (filosofo e matematico; al contempo, evoluto nel suo dialogare razionalmente con donne quali la principessa Elisabetta del Palatinato e Cristina di Svezia), oggi, purtroppo, eccezioni a parte, gli scienziati puntano all’iperspecialismo nel proprio settore, e alla fama, e per la filosofia nutrono scarso interesse. E pensare che molti progetti che fisici, ingegneri e professionisti di altro genere hanno portato a termine sono nati, in origine, da idee di filosofi che con loro hanno collaborato. Oppure gli stessi “veri professionisti”, come lei li ha chiamati, hanno indossato un doppio vestito che siamo soliti attribuire a categorie distinte. Albert Einstein, Werner K. Heisenberg forse prima che fisici sono stato filosofi, in molti casi il confine non è tracciabile in modo definito. Se la tendenza dovesse continuare in questa direzione di eccessiva settorialità si avranno sempre meno Oliver Sacks, per citare un altro personaggio che ha speso la sua vita nel dialogo interdisciplinare con la filosofia. Purtroppo anche sul fronte filosofico le cose non stanno procedendo meglio. Troppi scrivono, per esempio, di filosofia della medicina o filosofia della fisica, senza aver mai studiato con la serietà necessaria le scienze in questione. A rimetterci non può che essere la conoscenza. Per fortuna ci sono ancora molte persone che perseverano nel lavoro di qualità, nella convinzione che prima di parlare è bene conoscere e che, rimanendo ancorati alla propria nicchia privilegiata, gran parte di ciò che sappiamo sul mondo ci sfuggirà. Speriamo abbiano il giusto riconoscimento.

A differenza di altri professori, lei si pone in un dialogo costante con suoi studenti, alla Socrate. Perché? Per “mostrarci” cosa significhi fare filosofia indicandoci la strada per diventare filosofi?

Forse perché non sono presuntuosa. Come potrebbe darsi un filosofo vanaglorioso? Non si tratterebbe di un filosofo. E pertanto qui mi ritrovo amica di Wittgenstein quando sostiene che in filosofia si traducono i medesimi antichi pensieri in diversi linguaggi. Il non aspirare a conoscere conduce alla disumanità: lo afferma con nettezza Aristotele sulle forti spalle di Platone, e ancor prima Socrate e con il suo “conosci te stesso”, esortazione religiosa e di sapienza oracolare che troviamo scolpita sul tempio Delfi. Privi di conoscenza e di conoscenza della nostra identità, ci imbeviamo di quella brutalità che pure Dante, ricordando Ulisse, aborriva. Per questo sto pensando a un volume contro l’ignoranza. Ignoranza, tuttavia, non sempre da condannare, quando è origine della consapevolezza di se stessa e si anima del desiderio di venire superata. Confido fermamente nel progresso conoscitivo mio e dei miei studenti. Senza menti che collaborino insieme criticamente e si trasmettano conoscenza per testimonianza ci si ritroverebbe ancora all’età della pietra. Per questo è indispensabile un progresso conoscitivo che riguarda se stessi, l’altro-da-sé e il mondo che ci circonda. Il pensarsi onniscienti o onnipotenti alla Icaro crea invece seri problemi.

Vuol dire in fondo che sta educando un’élite epistemica che poco a che fare con la massa? A cosa ci riferiamo quando parliamo di verità?

La conoscenza è una questione elitaria solo in quanto arricchisce la nostra identità personale, la nostra singolarità, quotidianamente, secondo per secondo: pochi ne prendono atto. Mentre la cultura di massa – “popular culture”, ossia una cultura intrecciata al potere – si collega più alla stereotipizzazione, non alla conoscenza, non alla ricerca della verità. Non voglio assolutamante  educare un'élite epistemica, se con questo temine ci trasciniamo dietro connotazioni negative quali settaria e separata. Lungi da me! Il mio desiderio è diametricalmente opposto. In quanto teorico della conoscenza vorrei diffondere a più larga scala il mio contributo. Purtroppo, però, poche persone scelgono la prima via e troppe si fregiano di sventolare il vessillo della seconda. Sbattiamo ancora il muso sul bivio di Parmenide. Non si può certo dimenticare l’identificazione cristiana della verità con Dio, ben dichiarata nell’affermazione «Io sono la via, la verità, la vita», con tutto il suo contenuto platonico, per cui la verità è proprietà dell’essere o della realtà, Cosicché si parla del vero essere e della vera realtà, come nel linguaggio comune si parla del proprio vero amico. Aristotele limita l’applicazione di “vero” e “falso” al discorso apofantico, ovvero alle proposizioni affermative o negative, cosicché “vero” e “falso” non si possono predicare dei nomi o degli aggettivi, né dei discorsi non apofantici come le preghiere, le domande, i comandi, eccetera. In altre parole, una proposizione è vera se corrisponde a fatti o a stati di cose. Aristotele, invece, esprime con forza questa teoria nel seguente modo (La metafisica, IV, 7, 1011b): «Dire di ciò che esiste che non esiste, o di ciò che non esiste che esiste, è falso, mentre dire di ciò che esiste che esiste, e di ciò che non esiste che non esiste, è vero». Nello scorso secolo egli trova un celebre difensore nel Wittgenstein del Tractatus (4.01): «La proposizione è un’immagine della realtà». La post-verità? Una bufala. La verità relativa? Altra bufala. Bufale di cui la cultura di massa e il potere abusano in ottica opportunistica.

“In tempi in cui la menzogna domina, dire la verità è un atto rivoluzionario”. Questa frase di George Orwell spicca sulla sua pagina web. Perché?

Chi dedica l’intera propria vita ad andare di bolina, ovvero all’insegnamento serio, socraticamente inteso e  con la fatica che questo impegno comporta, seguendo ogni studente singolarmente e lavorando coi giovani migliori, dedicandomi inoltre alla ricerca filosofica più avanzata, scrivendo, studiando… cosa vuole che le dica? Una cosa è garantita: la ricerca della verità oggi è senz’altro un atto rivoluzionario.

Per difendere la verità si ucciderebbe alla pari di Socrate?

Sì, perché no? In verità nel nostro paese il problema del suicidio è ancora aperto. Non possediamo alcuna legge sulla nostra scelta di come e quando morire. Ecco una domanda interessante: esiste un diritto al suicidio? se sì come lo decliniamo in termini di giustizia? Questo non è il momento per rispondere, la risposta potrebbe richidere un'enorme lavoro, è così che si muove la filosofia.  Ma tralasciando questo punto, in realtà ciò che in fondo lei mi sta domandando è: dove finisce la natura e dove inizia la cultura, o meglio dove l’etica inizia a svolgere il proprio ruolo? Sotto il profilo normativo puramente filosofico, il punto alla fine consiste in questo: l’etica si interessa del bene e del male; ma se noi animali umani non possiamo conoscere o non conosciamo il bene e il male, ovvero se non troviamo una risposta allo scetticismo che riguarda l’etica, alla fin fine non possediamo mezzi per tracciare differenze tra brutalità umane e non umane. E poi sarà vero che uccidere non fa parte della natura umana? Provi a dare un’occhiata alla cartina del mondo e si chieda in quanti paesi vengono rispettati diritti umani e civili, in quanti a prevalere è la brutalità.

Ci sono filosofi di cui a lezione fa solo cenni, per esempio filosofi del calibro di Hegel.

Perché lo comprendo poco. Forse un aspetto di Hegel, non troppo deprecabile consiste nella sua idea di matrimonio quale atto etico in cui ci si trasforma in unità spirituale, in «amore cosciente». Ovvero, il matrimonio, a differenza di quanto comunemente si crede, non è un atto di natura contrattuale, bensì meramente consensuale, finalizzato al costituirsi in quanto persona. Mi spiace dover riconoscere che pure Hegel è incapace di spingersi oltre, finendo invece per attribuire il ruolo di capo famiglia al maschio-uomo da cui la femmina-donna dipenderebbe sotto il profilo giuridico. Lo stereotipo è mutato? Con occhio critico-filosofico, proviamo a guardarci attorno…

Filosofia antica o storia della filosofia?

La “poca” filosofica antica da me macinata proviene dalla una certa felice tradizione britannica e da alcune discussioni con l’amica Eva Cantarella nei nostri “paradisi terrestri”. La storia della filosofia? Quì  molti corsi, per antichi retaggi, pur non denominandosi “storia di…” , ancora oggi vengono condotti su manualetti a base storicista. Così lo studente non è indotto a pensare con la propria testa.

Eppure ha coeditato con Franca D’Agostini il libro che porta il titolo di “Storia della filosofia analitica”

Esperienza eccezionale e controcorrente, dato che la filosofia analitica pareva fino a quel punto priva di una storia, di un qualche concatenamento. L’essere controcorrente è sempre una conquista. E lavorare intensamente con Franca mi ha indotto a ritrovare parti di me, che avevo stupidamente tralasciato.

C'è chi la incrimina volentieri di aver mutato più volte pensiero. Forse per una certa sua “sistematica” ribellione?

Ho mutato mano mano  campi di interesse. Ho cominciato occupandomi di Boole e Frege. Oggi mi interesso,  soprattutto ma non solo, di sex&gender studies. Spiegarle questo percorso pulito, privo di svolte drastiche, ci porterebbe via tempo; eppure, è sufficiente leggermi per comprenderlo. Nessuna svolta radicale, per cui respingo chi parla della prima Vassallo, della seconda Vassallo, della terza Vassallo e così via: semplicemente non mi ha mai letto. Al contempo respingo anche l’idea di fissità: fare ricerca su uno stesso tema per l’intera esistenza terminerebbe con l’annoiarmi.

Cosa può dire della sua permanenza al King’s College di Londra? 

Essere entrata in un M-Phil/Ph.D, dove allora si era accettati in dieci al mondo, oltre a un successo, è stata una fatica. Si imparava a essere filosofi. Ci si svegliava presto. Ci si recava a dormire tardi. Avevi un tutor privato e un supervisor, che criticavano i tuoi paper, anche durante il week-end si leggeva e si scriveva. E il sex&gender di apparenza non contava. Mai stata trattata come uno studente. Certe sere capitava che alcuni professori si riunissero a cena per leggere e discutere Dante in italiano e ti invitassero a partecipare. Il venerdì, invece, era la serata del seminarione, ove i temi mutavano spesso. Occorreva preparazione, e così leggevamo gli ultimi paper, dalla filosofia della matematica all’identità personale e via dicendo, e li discutevano con tutti professori e i lecturer. Un simposio. Dopo di che il King’s ci offriva l’aperitivo e con tutti i professori si proseguiva a parlare. Anni dopo, quando questi professori sono divenuti miei colleghi, ero ammessa al loro seminario. Uno di loro metteva apertamente in discussione il proprio paper e tutti gli altri lo criticavano, non per invidia o altro,, ma per aiutarlo a migliorare. Sembrano cose eccezionali e incredibili, soprattuto per chi si è abituato al target universitario delle istituzioni italiane.
Lì non vi era il tempo per “fissarsi”, solo per evolversi. Mi ero recata a Londra, con le mie forze, contro il papere dei nostri locali – “ma cosa ci vai a fare non c’è più Popper? e lassù, Popper, è da tempo bello che dimenticato”-. Il mio progetto di ricerca  riguardava lo psicologismo di Boole e Frege, le leggi del pensiero e le leggi del pensare, eppure loro, accettandolo e accettandomi, avevano visto ben più in là: al naturalismo filosofico contemporaneo, senza dimenticare la metafisica e Cartesio. Tutto ciò mi ha condotto linearmente a interessarmi di filosofie femministe contemporanee (è quasi un dovere in U.K) e di sex&gender.

Ha qualche volume in mente in proposito?

Al riguardo ho scritto migliaia di pagine. E continuo a studiare e scrivere in modo ben poco tradizionale per il nostro paese, sotto il profilo strettamente filosofico. Vi è un paper da rivedere. E un volume collettaneo che spero si realizzerà, a favore, però, della complessità dell’identità personale,. Sono stufa di  questa tendenza ad inscatolare le persone in due stereotipi che fanno comodo solo a chi pensa ben poco, o, come diceva, il mio fantastico insegnante prete di liceo, chi pensa dall’ombelico in giù.

Vuole sfidare Judith Butler?

Non ho mai sfidato nessuno. E non intendo scopiazzare Butler, che, tra l’altro, facendo finta di nulla, evita troppo spesso di nominare chi prima di lei ha espresso, in un linguaggio ben più limpido le sue stesse tesi. E poi questa Butler è troppo apprezzata dalle nostre rappresentati della cosiddetta filosofia della differenza sessuale, che hanno fatto il loro tempo. In ogni caso, rimane una non-filosofa; e difatti a Berkley, dopo aver insegnato retorica, ora, mi pare, insegni letteratura comparata.

Eppure  anche a Lei è attribuita una elevata notorietà.

Non intendo negarlo, ma mi auguro per internazionalità, lungimiranza, onestà, riflessione, rigore nei miei studi e nelle mie ricerche. Umiltà. Non per ambizione. Quest’ultima acceca in filosofia. Corrisponde a una sorta di depilazione mentale.

I suoi maestri?

Maestri? Appigli. I classici. Rimango poi debitrice, da quando mi sono specializzata al King’s College, a “supervisor” d’eccezione, quelli che oggi sono miei  colleghi, quali Cristopher Hughes, David Papineau, Mark Sainbury, Anthony Savile, Scott Sturgeon e ai miei successivi costanti soggiorni londinesi., Un incontro determinante per il mio accrescimento filosofico e umano è stato quello con Jennifer Hornsby, ora al Birkbeck College, nonché Emeritus Fellow del Corpus Christi College, Oxford. In Italia? Francesco Barone (ci scrivevano lettere quasi quotidianamente), Mario Trinchero (ci sentivamo molto spesso al telefono), Carlo Cellucci, per umanità e innovazione, che prosegue con lo scrivere paper e volumi splendidi. E, soprattutto, Eva Picardi, scomparsa da poco: eravamo in disaccordo filosoficamente su quasi tutto e per questo dialogavamo su tutto. Non tuttavia su dignità e su metodologia. Filosofa e amica d’eccezione. Con lei è scomparsa in un attimo metà di me stessa. E’, un giurista per eccellenza, Stefano Rodotà, che mi ha donato il senso del diritto “intransigente”, insieme alla dedizione per l’insegnamento. Anche lui è scomparso, dopo Eva, lasciando un grande vuoto nella mia esistenza, non solo filosofico, pure esistenziale.

Molto di ciò che è, della sua fama, della prof. ribelle che ascolta e si dedica agli studenti si deve allora a Londra e all’U.K. più che all’Italia?

In un certo senso è così, perché a Londra mi hanno insegnato a fare la filosofa e a insegnare in certo “modo”, e questo “modo” le assicuro che qui in Italia implica molta solitudine, ma la gaiezza e il coraggio viene dagli studenti. E poi non creda i nomi italiani che le ho fatto sono sempre stati molto legati all’estero. Il Ph.D. Eva Picardi l’ha ottenuto ad Oxford. E ad Oxford continuava a tornare. Conosceva alla perfezione, oltre l’italiano, l’inglese, il tedesco e leggermente meno il francese: da ciò era assillata. Eppure nel nostro ultimo viaggio filosofico, lei calabrese superlativamente affascinante, esteriormente e interiormente, parlava indifferentemente queste lingue con chiunque, e con la modestia tipica di Oxford, a chi le chiedeva cosa facesse nella vita rispondeva: “studio filosofia”.

Concludo con una domanda personale, ma che forse ci porta a definire il legame tra Lei e L'italia e la filosofia. Dal King’s è tornata “a casa” perché è morta sua madre?

Avevo trent’anni. A Londra mi trovavo bene. Mia madre è morta in pochi minuti a cinquantadue anni per un ictus. Dovevo rientrare, per adempiere alle sue volontà. In molti colleghi, in primis Anthony Savile, mi hanno consigliato di lasciare tutto a Londra. L’Italia, che Antonhy conosce bene, mi avrebbe creato solo sofferenze lavorative da parte di prepotenti di piccole e grandi misure, e così è andata. La mia fortuna? Da qualche anno ho ottimi studenti, e torno a casa, pensando alle loro idee.






[1] Riccardo Malatto (3344903@studenti.unige.it), studente di filosofia presso l'Università di Genova, è uno dei co-autori, insieme a Daniele Bonanzinga Fabio Bergaglio e Federico Mottica, del website “L'ultimo Autunno” in cui si possono trovare pubblicazioni in tema di filosofia, cinema e poesia, proposte da giovani studenti.

lunedì 26 giugno 2017

Considerazioni sul “Progetto PICO” di Giulio Napoleoni


Franca D’Agostini

Giulio Napoleoni ha presentato sul suo blog (https://giulionapoleoni.blogspot.it) un “progetto di sistema collettivo” ispirato a Pico della Mirandola, e il cui obiettivo è la costruzione di una nuova sintesi sistematica prodotta collettivamente. In tale progetto Napoleoni cita con attenzione fedele alcuni miei scritti e alcune mie tesi, e di ciò lo ringrazio, ma non credo di poter condividere il suo obiettivo. Non credo che ci sia davvero bisogno di un nuovo “sistema” filosofico, perlomeno nel senso da lui inteso. Non credo che un “sistema collettivo” pensato secondo le linee da lui suggerite possa avere una qualche utilità o un qualche interesse.
Nel progetto però si esprimono (mi sembra di capire) alcune esigenze che meritano di essere considerate, e su cui merita riflettere, perché sono ampiamente condivisibili. In particolare, suggerirei: la necessità che tutti abbiamo di orientarci in un campo filosofico sempre più complesso e ipertrofico, in cui ridondanza e irrilevanza a volte sembrano dominanti. Ora io cercherò di sintetizzare brevemente le mie ragioni di dissenso, e di chiarire il mio punto di vista sull’argomento.

1. Con PICO Napoleoni manifesta l’esigenza di “tornare a pensare in grande”, come (a suo avviso) si faceva ancora ai tempi di Hegel, e come non si fa più, e non si può più fare oggi. Ciò detto, la “soluzione” al problema è a portata di mano: poiché non si può più pensare in grande da soli, e poiché tuttavia abbiamo ancora bisogno del grande pensiero, occorrerà farlo insieme. Dunque mettiamoci d’accordo, e costruiamo un sistema collettivo che garantisca una “pace filosofica”.
Già su questa premessa avrei qualche perplessità: non mi sembra che Napoleoni spieghi bene che cosa sia il grande pensiero, e perché ne avremmo bisogno. Ma forse è un limite mio. Di qui in avanti però secondo me incominciano i problemi. Non appena Napoleoni entra in dettaglio, l’ipotesi della pace filosofica sfuma via. Il suo infatti è già un pre-sistema filosofico, pronto per essere messo in discussione e per alimentare la non-pace, e soprattutto: concepito in solitudine, con scarsi confronti. (La solitudine è la vera malattia di chi pensa, oggi: nonostante l’apparente concitazione degli scambi comunicativi, sul web e altrove. Ma non sono sicura che l’uscita da tale sgradevole condizione, e cioè il “pensare insieme” che dovrebbe essere il requisito distintivo di qualsiasi scienza, e in specifico della filosofia, sia ottenibile in base a ciò che il progetto PICO suggerisce.)
La conseguenza prevedibile è che le articolazioni del sistema che Napoleoni propone sono discutibili (a occhio, direi: per requisiti opposti di elusività e vastità), e sono prive di rapporto con altre proposte di “sistema” o altre idee di “sistematicità”, con cui l’autore non si confronta. Dummett, per esempio, riteneva che la filosofia analitica dovesse essere sistematica, ma David Lewis, considerato il più “sistematico” tra i pensatori contemporanei, non era affatto convinto che essere un pensatore di questo tipo fosse di per sé una buona cosa. Le discussioni sulla possibilità, impossibilità e sensatezza di costruire sistemi filosofici oggi sono uno dei grandi percorsi tematici di tutta la meta-filosofia successiva a Kant. Ma molto evidentemente dipende da che cosa si intende per “sistema” e “sistematicità”. Tanto il caso di Lewis come l’uso di “sistematico” in Dummett sembrano mettere in gioco qualcosa di molto diverso da quanto è previsto dal progetto di Napoleoni. E lo stesso dicasi per esempio dei “sistemi” di derivazione neopositivista, o neokantiana (per non parlare delle grandi sintesi extra-filosofiche, come quella bio-sociologica, nota anche come «teoria della complessità», o delle proposte di convergenza trasversale legate alle scienze della computazione).

2. Non ho idea di come la proposta di PICO possa essere recepita, ma indicativamente, anche posto che molti rispondano all’invito di Napoleoni, secondo le linee da lui suggerite, e si arrivasse davvero a produrre un collettaneo, a chi potrebbe essere rivolto un testo di questo tipo?
L’idea di Giulio di scrivere un testo “per tutti”, con sezioni “per alcuni” e note “per gli specialisti” è una buona idea, di solito io cerco (cercavo) di scrivere più o meno libri di questo tipo, con destinatari “plurimi”, e mi sembra che altri si muovano secondo le stesse linee. Ma il volume sistematico ipotizzabile a partire dalle sue indicazioni, anche nelle migliori condizioni, sarebbe difficilmente maneggevole, e così privo della gioia dello stile che i suoi stessi autori non vorrebbero nemmeno incominciare a leggerlo. Sarebbe un altro volume collettaneo come moltissimi altri, e più inutile di altri, perché troppo generale. In ogni caso, dubito che una simile operazione possa produrre o anche solo favorire una qualche nascita o rinascita del “grande pensiero” o di quell’idea di filosofia che Napoleoni ritrova in Hegel ma non nei contemporanei, e di cui avverte la mancanza.
Ribadisco: sono dubbi, perplessità, e non certezze. Servono soltanto a segnalare che la mia diagnosi del presente è un po' diversa da quella prevista da Napoleoni. Forse mi sbaglio, ma ho una mezza idea del fatto che un “sistema” delle conoscenze filosofiche (più precisamente, direi, un tentativo di pervenire a una nuova “filosofia prima”) si stia già producendo, benché in modo per ora piuttosto caotico. Per esempio, grazie agli sforzi attuali dei filosofi più consapevoli, che cercano di limitare il numero delle loro produzioni puramente “politiche” (concepite per crescere il numero di pubblicazioni, o trovare credito presso colleghi, o giornali ed editori), e si pongono invece il problema della reale necessità e urgenza dei loro libri e articoli; oppure si impegnano nel tentativo di riflettere metafilosoficamente sul senso di quello che stanno facendo. Grazie alla promozione di borse, grant, fellowship che promuovono ricerche interdisciplinari o applicative; o anche: grazie alla produzione di volumi collettanei e antologie che tentano di fissare il “canone” delle singole discipline, e dei singoli temi…
Non sono sicura che queste e altre iniziative promuovano qualche nuova “grandezza” nel pensiero, ma certo è che se lo scopo è la pace filosofica, e l’uscita dalla solitudine, Napoleoni dovrebbe tenere conto di tutto ciò.

3. Nel progetto PICO si esprime a mio parere un’esigenza latente, che è quella vera, e piuttosto condivisibile, e che è però (mia diagnosi) piuttosto diversa dall’esigenza manifesta. Napoleoni come tutti noi avverte che il campo della filosofia oggi è difficilmente maneggiabile, e che la “grandezza” che troviamo nei classici (a questo si riferisce l’idea di “grande pensiero”?) sembra molto lontana da ciò che la tavola attuale delle discipline filosofiche ci imbandisce con le sue piccolissime porzioni presentate in piatti di ingombrante vastità.
In una breve nota apparsa l’anno scorso sulla rivista American Philosophical Quarterly, dal titolo “Philosophy Without Philosophers”, Nicholas Rescher ha sostenuto che oggi si assiste al fiorire della filosofia (nel senso di: enorme quantità di pubblicazioni di libri e articoli su ambiti specifici delle discipline filosofiche/ crescita impressionante del numero di riviste e società filosofiche tra gli anni ‘70 del Novecento e oggi) unita all’estinzione dei filosofi ovvero dei «pensatori che hanno una filosofia». Secondo Rescher ciò non avviene perché i pensatori di oggi sono «meno bravi», ma perché «le condizioni e circostanze di lavoro hanno cambiato a tal punto la natura dell’obiettivo da renderne la realizzazione impossibile».
Non sono sicura di essere d’accordo con Rescher, ma certo è che l’iper-produzione a cui siamo sottoposti in filosofia come in altre scienze e discipline ci mette di fronte a nuove valutazioni, nuove esigenze e nuovi problemi. In particolare (di qui la perplessità di Napoleoni) rende estremamente difficile orientarsi, e individuare il buon lavoro filosofico, e trovare «la filosofia» nelle cose prodotte da pensatori che, per definizione: «non hanno [né devono avere] una filosofia». La colpa di ciò non è della specializzazione (perché le migliori ricerche in filosofia di solito non sono poi così “specializzate”, e perché la specializzazione crea ridondanza, ma non fa così gran danno). Ma più semplicemente: della crescita di informazione.

4. Ecco dunque quella che credo sia l’esigenza latente nel progetto di Napoleoni. Quando siamo interessati – anche non professionalmente – alla filosofia, siamo particolarmente attratti da una visione continua della realtà (umana naturale sociale culturale) che ci permette di “trovarci a casa” nelle parole di un pensatore. Questa visione continua è piuttosto rara, oggi. Pochi tra gli studiosi contemporanei di filosofia oggi rivelano di possedere un simile punto di vista, e lavorano in questo modo. Nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a pensieri frammentati e paratattici, che possono anche essere interessanti ma non hanno quel quid che ci permette di riconoscere lo specifico filosofico (v. Rescher).
Ora questa visione continua è tipica di un pensatore che fa della sua filosofia, del suo pensiero, della sua ricerca, non soltanto la sua professione ma anche la sua vita. Un pensatore che fa del suo pensiero il suo senso e il suo destino, ed è dunque meno interessato al successo personale o alla riuscita professionale (senza peraltro dover disprezzare l’uno e l’altra) che alla sua propria ricerca di verità, negli ambiti di cui si occupa e in generale.
Rescher non lo dice, ma forse quel che non la specializzazione ma l’attuale sistema della valutazione scientifica ostacola è precisamente questo genere di onestà intellettuale, che ovviamente dovrebbe valere per ogni ricercatore, ma per i filosofi dovrebbe valere a maggior ragione. Perché credo di non sbagliare nel suggerire che la qualità di una ricerca filosofica dipende da questo tipo di impegno più di quanto ne dipendano altre ricerche. Dirò di più: la tradizione ci insegna che ciò che avvertiamo come classici, e ciò che soprattutto ci interessa dei grandi del passato, è precisamente lo stile umano con cui guardavano il mondo, unificandolo nel loro sguardo. Sbagliavano a volte, perché uno sguardo singolo non è mai garanzia di verità. Ma ciò che ci faceva abitare nelle loro parole era precisamente la grandezza del loro pensiero e della loro qualità umana.
Ora io non credo che questo tipo umano sia così raro, e non credo che il genio filosofico conseguente sia un «non so che» talentuoso che non si può insegnare ma viene dall’alto, per imperscrutabile disegno. L’ipotesi su cui bisognerebbe confrontarsi allora non è la pace filosofica tout court, il sistema, il grande pensiero, ma la possibilità di formare noi stessi e i nostri allievi (se ne abbiamo) a questo tipo di lavoro. Capisco però che è un altro discorso.   



domenica 21 maggio 2017

Occasioni mancate: Karl Otto Apel

(questo post è stato pubblicato, in versione un po' diversa, sul Domenicale del Sole 24ore il 28 maggio 2017)

Il 15 maggio, all’età di 95 anni, è morto Karl Otto Apel, un filosofo che non ha mai goduto della fama e della presenza pubblica del suo amico e quasi-coetaneo Jürgen Habermas, ma il cui lavoro ha agito in modo decisivo nella filosofia europea del secondo Novecento (tra l’altro, ispirando ampiamente le teorie di Habermas stesso).

Apel è stato uno dei protagonisti della «svolta linguistica» della filosofia, una svolta che come si sa non è stata un’invenzione dei filosofi analitici, ma ha riguardato tutte le tradizioni filosofiche, più o meno a partire dal tardo Ottocento, e in modo conclamato nei decenni centrali del secolo successivo. Il suo particolare sguardo sul linguaggio nasceva dalla conoscenza profonda della tradizione retorica e filologica del rinascimento italiano, a cui dedicò nel 1963 il volume L’idea di lingua nella tradizione dell'umanesimo da Dante a Vico. E di qui fu indotto a interessarsi all’ermeneutica, la prospettiva filosofica allora nascente (nell’opera di Gadamer, Verità e metodo, del 1960), e più in generale al complesso e multiforme destino del pensiero heideggeriano.

Ma dieci anni dopo, con Transformation der Philosophie (parzialmente tradotto nel 1976 da Gianni Carchia con il titolo Comunità e comunicazione, Rosenberg & Sellier), Apel presentò una sua visione della contemporaneità filosofica che coinvolse un dibattito più ampio e che ancora oggi ha molte cose da dirci.

L’idea di fondo del volume doveva poi diventare un’idea di gran successo, nei decenni successivi, ispirando discussioni critiche, riconsiderazioni e aspre polemiche. Ed era una verità semplice e piuttosto ovvia, anche se storiograficamente imbarazzante: che non esisteva più una filosofia, e neppure ne esistevano molte, ma piuttosto due, due grandi tradizioni, che procedevano da tempo separatamente, i cui esponenti raramente prendevano nota gli uni degli altri; o, se lo facevano, osservava Apel, era per delegittimarsi a vicenda, accusandosi di non essere veri filosofi. Ora le due tradizioni erano la filosofia analitica, in prevalenza diffusa nei paesi di lingua inglese, e la filosofia europea (per Apel soprattutto tedesca), che più tardi si qualificò come «continentale».

Ogni tentativo di organizzare concettualmente il presente ha suoi limiti. Ma che l’idea analitici-continentali fosse ben fondata era abbastanza ovvio, e più tardi fu ampiamente riconosciuto. L’interessante novità era che il «great divide» veniva accolto da Apel come una risorsa, e non come la fonte di un problema. Come l’inizio di una «trasformazione» appunto, e non come una banale ragione di polemica calcistica.

In breve, Apel notava che le raffinate analisi del linguaggio sviluppate dai filosofi analitici avrebbero fornito un utile fondamento a quella rilettura in chiave «linguistica» della filosofia di Kant che si stava avviando un po’ ovunque in Germania (e di cui l’ermeneutica appunto costituiva un’espressione significativa). D’altra parte, l’accesso alla considerazione kantiana della conoscenza, e della filosofia stessa (la «svolta trascendentale», canonica per gli europei e ignota o sottovalutata dai filosofi analitici), secondo Apel avrebbe fornito un’utile fondazione generale e anche una giustificazione di tipo etico e politico, alle disperse teorizzazioni analitiche.

In quegli stessi anni, un altro importante filosofo tedesco, Ernst Tugendhat, nelle sue lezioni sull’analisi del linguaggio (del 1976) partiva da una prospettiva molto simile, anche lui riconoscendo il dualismo delle tradizioni, ma pensando piuttosto che l’incontro tra la logica di Frege e Russell, fonte germinale della filosofia analitica, e l’eredità del kantismo (nella fenomenologia e nell’ermeneutica), avrebbero creato un nuovo paradigma per la nostra considerazione dell’essere, permettendoci di scoprire che il realismo di Aristotele non era affatto incompatibile con Kant.

Nel frattempo, cresceva la fortuna dei filosofi post-strutturalisti francesi, e incominciava anche la mediatizzazione globale della filosofia. La stessa filosofia analitica, in America soprattutto, veniva travolta dal ‘vento’ di una filosofia «continentale» ambiziosa e per molti aspetti affascinante, il cui sperimentalismo provocatorio e la cui programmatica oscurità erano il legato non di Kant, né di Hegel, né della grande tradizione fenomenologica ed esistenziale, ma soprattutto delle avanguardie artistiche della prima metà del secolo, e subordinatamente di Nietzsche e Heidegger. Di qui nacque poi il notissimo postmodernismo, rimbalzato tra Europa e America, poi variamente definito e interpretato e in seguito generalmente vituperato.

Negli anni Ottanta e fino alla metà degli anni Novanta, Apel fu tra i primi e più argomentati oppositori della deriva che il post-strutturalismo aveva subito ad opera della sua trascrizione mediatica e globalizzata. In una serie di scritti Apel rilevava le autocontraddizioni e le insensatezze di tali posizioni, rilanciando una nuova versione dell’antico argomento anti-scettico (che aveva già utilizzato in una famosa polemica con Hans Albert), e parlando di «autocontraddizione performativa».

L’ipotesi di una «trasformazione della filosofia» sembrava piuttosto lontana dal realizzarsi. Piuttosto, sotto il nuovo impulso dell’informatizzazione emergeva potentemente un problema che ha occupato a lungo le opere di Apel e di Habermas negli anni Novanta dello scorso secolo, e che ancora oggi è all’origine di molte nostre difficoltà: il problema dell’etica della comunicazione. A che cosa serve in definitiva far crescere la scienza, cercare un governo giusto, promuovere la pace, fare arte, in una parola, vivere insieme ai propri simili, se non esiste tra noi una speciale cura del linguaggio che ci impedisca di manipolare, ingannare, trasformare mezze verità in totali menzogne?

Nel 1997, promuovendo l’idea di un articolato confronto tra analitici e continentali, Gianni Vattimo (a cui si deve il primo lancio in Italia del lavoro di Apel) scrisse «ciò che sta davanti alla filosofia come suo compito è, dopo la decostruzione, un lavoro di ricucitura e di ricomposizione». Purtroppo, le vicende successive sono andate in direzione diversa, e il programma di Apel rimane una delle nostre occasioni perdute. Forse il problema è ancora quello evidenziato nelle sue ultime opere. Fino a quando l’etica della comunicazione (con le sue recenti sorelle, a cominciare dalla data ethics) non entra nella vita della filosofia stessa, sarà difficile sperare che oggi, in un’epoca in cui trionfano false dicotomie e insensate semplificazioni oppositive, le migliori proposte del Novecento filosofico, e le nostre attuali migliori idee, abbiano voce in capitolo.

Franca D'Agostini

giovedì 6 aprile 2017

Due segnalazioni


A. Deneault, Mediocrazia, Neri Pozza, 2017 

«I mediocri hanno preso il potere» – questa la tesi centrale del libro del filosofo canadese Alain Deneault. Secondo Deneault la presa di potere da parte dei mediocri si deve all’affermarsi della «religione d’impresa», per cui il valore viene misurato sulla base di standard di professionalità, competenze, protocolli, processi di verifica codificati, che forse eliminano il pessimo, però sistematicamente e inevitabilmente promuovono il mediocre e scartano l'eccellente. Ciò avviene in ogni settore: nell’economia, nella politica, nella scienza, nelle aziende … In questo modo, diventa possibile trovarsi a pieno titolo a «preparare pasti per catene alimentari senza saper cucinare, stabilire direttive aziendali senza sapere neppure di che cosa si stia parlando, vendere libri e giornali senza averli neppure sfogliati» (e forse sapendo a malapena leggere). [Aggiungiamo: trovarsi ministri senza avere una laurea, o con un PhD di dubbia fattura.]

Come venirne fuori? Non facile. Deneault intanto propone di «definire le modalità di questi nuovi poteri», «comprendere il loro funzionamento», e prepararsi a rovesciarli (ma quest'ultimo punto non è specificato).



L. Marsili, Y. Varoufakis, Il terzo spazio. Oltre establishment e populismo, Laterza 2017 

Lorenzo Marsili (attivista e giornalista culturale) e l’ex-ministro greco dell’economia Yanis Varoufakis propongono la loro «terza via» tra populismo e potere istituito. L’idea di base è che il «pensiero unico», voce canonica dell’establishment, sta cambiando, a causa di un suo figlio naturale, il populismo, che sta emergendo al potere, come suo ufficiale nemico. È una «crisi esistenziale» del «partito del pensiero unico».

In questa «grande trasformazione», bisognerà «dare risposte concrete», dimostrando che «la richiesta di una nuova democrazia inclusiva ed egualitaria» può trovare soddisfazione. Come fare? L’idea degli autori è un po’ deludente: si tratterebbe di promuovere una «rivoluzione del buon senso», «rimettere al centro il buon senso e avere un programma chiaro: a livello municipale, nazionale ed europeo. Perché di questi tempi avere un programma è un atto rivoluzionario».
In pratica, il libro ci dà argomenti non banali per chiarire che il "populismo nemico dell'establishment" è in realtà una creatura dell'establishment (non per nulla il super-populista Trump è un miliardario con legami politici e alleanze tutt'altro che estranee al potere istituito). Ma non dice molto di più.

domenica 19 marzo 2017

Gli italiani in filosofia: una questione di stile. Su "Mezzo secolo di filosofia italiana", di Massimo Ferrari

(Questo post è uscito in una versione leggermente diversa su "la Stampa" del 25/06/2017)

Franca D'Agostini


C’è una filosofia “italiana”, dotata di specifici caratteri distintivi? Nell’epoca della fine delle mentalità e delle culture nazionali la domanda sembra bizzarra. Eppure da qualche tempo circola l’idea che esista un Italian thinking particolarmente efficace, legato alla filosofia politica di Giorgio Agamben e di altri autori che oggi riscuotono un certo successo in ambito internazionale. L’idea ha suscitato comprensibili perplessità. A prima vista, sembrerebbe il tentativo di contrastare l’egemonia della filosofia di lingua inglese, dicendo (con qualche ragione) «ci siamo anche noi!». È ovvio però che ‘noi’, come ‘noi’, esistiamo in modo molto precario, e i teorici ed esponenti dell’Italian theory (a cominciare da Giovanna Borradori, autrice nel 1988 di Recoding Metaphysics. The New Italian Philosophy, che ha lanciato l’idea) lo sanno benissimo.

Nonostante ciò, forse c’è una sorta di «italianità» di cui è utile tenere conto in filosofia. E l’intuizione trova conferma nell’accurata ricostruzione storica compiuta da Massimo Ferrari con Mezzo secolo di filosofia italiana. Dal secondo dopoguerra al nuovo millennio (il Mulino).

Lo sguardo disincantato e niente affatto trionfalistico di Ferrari arriva a scoprire alcuni caratteri di base del lavoro degli italiani oggi che sono diversi da quelli teorizzati per esempio da Roberto Esposito (uno dei più affezionati all’idea dell’Italian Theory), ma sono altrettanto positivi e incoraggianti, anzi, direi: lo sono di più. L’immagine finale che ci restituisce l’Epilogo, e che riguarda gli ultimissimi anni, ci fa vedere bene che pur attraverso le difficoltà, la marginalità e gli inciampi che ben conosciamo, c’è uno «stile» riconoscibile degli italiani in filosofia, e uno stile niente affatto disprezzabile, sia sul piano dell’etica della ricerca, sia su quello della professionalità.

Ferrari riconosce che il lavoro storiografico, specie quando riguarda il passato recente, ha una incerta forma di oggettività. Nel libro si avverte con chiarezza però un sistematico sforzo di mantenersi neutrali, rispetto per esempio a quella doppia articolazione, «analitica e continentale», che ha guidato i decenni centrali del secolo o al conflitto (più tipicamente italiano) tra le varie forme di spiritualismo di matrice cattolica e la crescita di una filosofia della scienza di orientamento più schiettamente laico e materialista.

Al di là delle possibili lacune, fisiologiche in questo tipo di lavori (per esempio: non si parla della filosofia femminista, che in Italia ha avuto una notevole importanza), sono particolarmente interessanti, nel libro, la ricostruzione del lento distanziarsi della cultura italiana dall’idealismo, l’incerto sviluppo del programma del «pensiero debole», la nascita di vitali scuole di logica e di filosofia della scienza , la tardiva fortuna dell’etica.

In tutti questi casi, è l’incontro con le filosofie di altri paesi ad aver determinato e orientato il lavoro dei filosofi italiani. Ma l’analisi di Ferrari rivela che è sbagliato leggere in ciò la conferma di una italianità malata, affetta da inguaribile mancanza di originalità ed endemica esterofilia. Al contrario, proprio la maturazione di uno sguardo ampio e sovranazionale è ciò che ha fatto la fortuna della filosofia in Italia.

Anche l’accusa di ostinato storicismo che gli italiani spesso rivolgono a se stessi, alla luce dei più recenti sviluppi dovrebbe mutare segno. Certamente, l’idea di insegnare (e trattare) la filosofia sempre e solo attraverso la sua storia non è una buona idea. Ma non sempre ha prodotto cattivi esiti. Un primo risultato è stato l’alto livello di professionalità raggiunto dagli storici italiani di filosofia. Ma non soltanto: «la storia della filosofia è diventata […] un elemento caratteristico, una sorta di “stile” – appunto – che senza pretendere di imporsi suscita interesse, talvolta emulazione, e in ogni caso favorisce un’integrazione sempre più evidente con la filosofia praticata altrove». E lo ‘stile’ di cui si tratta è una fondamentale cautela, che ci evita di annunciare trionfali ‘scoperte’ di idee invece ben note alla tradizione: un difetto che noi italiani riscontriamo abbastanza spesso nel lavoro di quei filosofi analitici abituati a pensare che il mondo incominci con Russell e Frege.

In pratica, l’attenzione ad altre esperienze filosofiche, associata alla consapevolezza che molto è stato fatto per la filosofia nella storia, hanno prodotto un’auto-limitazione che non è solo tendenza al vassallaggio, piuttosto «la sobria consapevolezza che l’originalità teorica è comunque, e non solo in Italia, un bene abbastanza raro». Tale consapevolezza non si è tradotta in una perdita di teoria: al contrario, «se si prescinde dalla penalizzazione linguistica», nota Ferrari, anche nell’ambito della ricerca teorica «una parte certo non cospicua ma nemmeno irrilevante della produzione filosofica italiana […] si colloca su un livello non così lontano da quella straniera e a volte su un gradino più elevato». E in pratica, «sembra che i filosofi italiani maggiormente inseriti nel circuito internazionale mantengano un’encomiabile disponibilità ad ascoltare i propri colleghi, mentre non sempre (a essere ottimisti) lo stesso vale per quegli interlocutori che candidamente confessano di non leggere l’italiano». (Aggiungerei: anche quando gli autori di cui si parla sono Machiavelli o Leopardi.)

Ferrari giustamente evita di formulare diagnostiche complessive, ma forse qualche preliminare intuizione ci è consentita. I teorici dell’Italian  Thinking identificano l’italianità in una forma di filosofia politica che non è solo teoria ma è anche, come dice Esposito, «pensiero vivente». Certamente, la scarsa forza dell’identità collettiva in un paese troppo a lungo frammentato e perciò non abituato ai valori civili della democrazia ha fatto sì che i migliori filosofi in Italia, nel tempo, si impegnassero all’edificazione dei concittadini e dei governanti, e di qui la vitalità della filosofia pubblica in Italia. Ma si può completare il giudizio: forse questa stessa frammentazione ha anche agito in un altro senso, rendendo gli italiani «stranieri in patria e cittadini del mondo»; ed è probabilmente un’ottima condizione per fare filosofia.

sabato 11 marzo 2017

Che cosa è il «pensiero unico»? Su Pensare altrimenti di Diego Fusaro


di Franca D'Agostini


Il recente libro di Diego Fusaro Pensare altrimenti (Einaudi, 2017) tratta un tema che la letteratura filosofica del Novecento ha frequentato con assiduità: il tema dell’altro pensiero. Più che di un tema, nel Novecento si trattò di una linea teorica e metodologica ben precisa: la teoria dell’esistenza di un modo di pensare dominante, storicamente e/o politicamente (es. la metafisica classica, l’ontologia della presenza, il logocentrismo occidentale, il patriarcato), a cui occorreva contrapporre un «altro» modo (migliore, più giusto) di pensare, e conseguentemente di agire e organizzare la vita associata.

La teoria ha sempre costituito il paradigma di sfondo di ogni filosofia di sinistra o progressista (più o meno a partire dall’Ideologia tedesca di Marx ed Engels), e Fusaro ne offre una versione aggiornata, mettendo in opera una prospettiva filosofico-politica che è andato fissando in questi anni attraverso suoi precedenti lavori e studi.

In quel che segue, 1. Ricostruisco brevemente gli argomenti di base del libro; 2. Presento le mie perplessità sul contenuto; 3. Presento le mie perplessità sul metodo; 4. Interpreto Pensare altrimenti come una richiesta dell’autore che non deve essere trascurata (e di qui la ragione per cui ne parlo).


1. Il problema che il libro intende affrontare e risolvere è l’organizzazione politica del dissenso: operazione estremamente problematica perché oggi «su tutto si può dissentire», cosicché – si direbbe – il dissenso (l’altro pensiero) non c’è più, resta solo la funzione del dissentire perfettamente vuota, che potrà applicarsi a piacere su questo o quell’altro contenuto, ciascuno dei quali verrà rapidamente neutralizzato dal fatto che si tratta pur sempre di un dissenso qualsiasi, inglobato nel calderone del generale dissentire.

Più precisamente, l’idea di Fusaro è che la frammentazione e pluralizzazione dei dissensi serve a vietare il «grande dissenso» (riformulazione del «grande Rifiuto» di Marcuse), quello che davvero farebbe paura al pensiero dominante. Scrive Fusaro: su tutto si può dissentire, «a patto che non si pervenga mai al grande dissenso verso la violenza economica; e, in modo convergente, tutto è permesso fuorché pensare e agire in vista di una società diversamente strutturata». Il vero dissentire verrebbe liquidato a vantaggio di un dissentire neutralizzato per pluralizzazione individualistica, particolarizzato e perciò privato di ogni arma politico-sociale. «Il flusso dei dissensi» spiega Fusaro, riguarda gli individui con i loro interessi, non investe «la dimensione sociale e la contestazione olistica dell’ordine mercatistico». Ne segue che «la questione economica è sostituita dalla questione morale, i diritti sociali da quelli civili, la lotta contro l’ordine ingiusto dal legalismo».

Ciò posto, fissarsi su questioni morali e civili esemplificherebbe un dissenso fallimentare, il cui unico risultato è se mai l’auto-encomio dell’anima bella del proponente, e che non sfiora per nulla le vere questioni essenziali. Ci occorre invece «una grammatica del conflitto condivisa, una vera e propria koinè del dissenso, in grado di […] attivare una prassi corale, orientata […] alla riapertura del futuro come luogo della possibilità dell’essere altrimenti» (p. 135). Infatti, dice Fusaro, ci manca «un orizzonte di senso più grande, che trascenda la dimensione delle singole rivendicazioni oppositive plurali e irrelate».

Come provvedere e rendere operativa questa visione più grande? Il progetto si articola in alcune operazioni di base. Anzitutto, occorre «defatallizzare l’immagine del mondo oggi egemonica». Ciò vuol dire, suppongo: dimostrare che gli obblighi cognitivi a cui sembriamo sottoposti non sono veri obblighi, possiamo benissimo farne a meno. Ma più propriamente, si tratta di produrre «una nuova filosofia della prassi» che tolga «il coefficiente di inevitabilità» all’immagine della realtà, e «torni a far brillare la possibilità come cifra ontologica del reale». In secondo luogo, occorre dare vita a «un moderno principe», inteso come struttura organizzativa (ma a tratti sembra che Fusaro parli di un leader effettivo) che abbia come obiettivo primario «l’unione e l’indirizzamento verso l’alto dell’ira politica» allo scopo di creare «un fronte unitario dell’opposizione al pensiero unico e all’ideologia del medesimo, al classismo globale e al mito della crescita ai danni della vita umana e del pianeta».

In terzo luogo, si tratta di «riverticalizzare» il conflitto, facendolo passare da conflitto orizzontale servo-servo a conflitto servo-padrone. La nuova filosofia della prassi, e il nuovo Principe, dunque assumeranno «la prospettiva dei dominati, conferendole voce e portandola alla piena coscienza», «respingendo il particolarismo ideologico», e «lottando per quell’imperativo della ragione, a oggi irrealizzato, che è l’universale umano».

Infine, «naturalmente, il potere mobiliterà l’intero quadro del clero intellettuale e giornalistico e del circo mediatico per mantenere frammentata la base e in conflitto tra loro gli esclusi, diffamando e silenziando chiunque proponga la riverticalizzazione del conflitto». Dunque si tratterà di collocarsi nel «dilemma» di chiunque voglia opporsi all’ideologia dominante, dice Fusaro, vale dire: cogliere «la possibilità di una valorizzazione degli strumenti emancipativi del nostro tempo […] che sappia però sottrarli allo sguardo medusizzante del valore di scambio e all’immediata riconversione in merce che esso opera» (p. 154).


2. È questa, in breve e se ho ben capito, la proposta di Fusaro. E consiglierei, nel valutarla, di mantenere distinti quel che Fusaro dice e quel che fa nel dire quel che dice. È una differenza per me importante, che dovremmo applicare a ogni libro di filosofia che ci accada di leggere.

Quanto a quel che dice, non mi sembra che Fusaro abbia trovato qualcosa di nuovo rispetto alle migliori elaborazioni del suo tema proposte nel Novecento e oltre. Questa storia della «grammatica del dissenso» è il tema costante di tutta la filosofia politica radicale, da Adorno e Marcuse, al situazionismo e a Deleuze, e più recentemente a Badiou. Le soluzioni di Fusaro non mi sembrano molto diverse dalle loro, e poiché Fusaro non si confronta con loro, non capisco in che modo la sua proposta potrebbe ovviare alle difficoltà che le tesi di questi pensatori hanno lasciato irrisolte.

Più in dettaglio, per esempio Fusaro avverte che il concetto di dissenso non può essere esaminato more geometrico, ma poi in pratica quel che propone nel seguito è (o si basa su) un’analisi concettuale.  Ed è un’analisi molto discutibile. A tratti la nozione di (grande) dissenso si allarga diventando semplice «dire di no» al potere, e mera «ribellione», poi si precisa come «indocilità ragionata», o avversione «alla civiltà dei consumi». Normativamente, deve affermarsi come «intensità anteriore a ogni concettualizzazione», e tuttavia deve «organizzarsi coralmente» nella forma di un vero e proprio «partito del dissenso». Tutte queste contraddizioni fanno parte della dialettica tipica di analisi di questo genere, ma non è una scusante: avere chiarezza circa la necessità delle contraddizioni non significa permettersi di averne di ogni tipo. I concetti (specie questi concetti fondamentali) sono per così dire «costellazioni paraconsistenti»: insiemi di predicati, alcuni dei quali indicanti proprietà in conflitto tra loro. Ma il gioco consiste precisamente nel mettere in luce quali tra questi conflitti sono veri, quali sono dovuti a qualche errore del senso comune o della tradizione filosofica, e (soprattutto) quali sono dovuti a un uso distorto, che si è consolidato per ragioni strategico-politiche. Hegel-Marx facevano sostanzialmente questo, se non vado errata.

Al di là di tutto, il libro di Fusaro non risolve la mia perplessità nei riguardi delle teorie dell’altro pensiero in generale. Posto che ci sia un pensiero dominante, come fa l’altro pensiero a essere altro, visto che se il primo domina, dovrà comunque starci dentro, e usare le forme del suo dominio? È un’antica difficoltà, che ha minato dall’interno le critiche novecentesche della ragione, e a cui non mi sembra che questo lavoro di Fusaro riesca a sfuggire. Il «dilemma» del dissenso ricatturato dal mercato delle idee (per cui, dice Fusaro, bisogna stare attenti a che la propria condanna della merce non sia riconvertita in merce) non è solo un fatto pratico, mi sembra, è anche una questione teorica rilevante. Se davvero esiste questa «ortodossia dominante», e se davvero è così monolitica, e corrispondente a un potere ideologico reale, come avviene che invece ci sia concesso il diritto di parlarne? Non mi sembra che il «dire di no» di Fusaro e la sua «filosofia della prassi» contengano indicazioni chiare su questo punto.  In pratica, la facile lettura del conflitto in termini di ‘noi-loro’ finisce per dissolvere l’intuizione primaria, circa la falsa permissività del sistema che hegelianamente accoglie ogni altro, lo digerisce e lo espelle.

Continuiamo dunque a chiederci: chi è esattamente lo «stesso», rispetto a cui l’altro dovrebbe definirsi? Come è fatto il «pensiero unico» a cui Fusaro sempre ritorna come il primo nemico da sconfiggere? La risposta sta nelle espressioni «ordine mercatistico», «consumismo», «violenza economica». Formule vaghe, che evidentemente si riferiscono ai padroni del mondo di cui ormai sappiamo quasi tutto, e che oggi, come spiega bene Noam Chomsky (Who Rules the World?, 2015), hanno un volto molto chiaramente riconoscibile. Ma se davvero parliamo dei padroni del mondo, non stiamo parlando di «pensiero» ma proprio e concretamente di povertà e ricchezza, e iniquità e avidità.

Questo non vuol dire che secondo me non ci sia conflitto, e che tale conflitto non si ponga anche al livello delle idee. Oggi sappiamo che il sistema tardo-post-neo-capitalistico è una macchina di iniquità, e per di più non funziona neppure per gli scopi per cui si intendeva funzionasse. Il punto piuttosto è che lo sanno anche molti tardo/post/neo/capitalisti, salvo il fatto che la maggior parte di loro non lo dicono, o lo dicono cercando di salvarsi la pelle, e giustificandosi con mezze verità che diventano facilmente falsità totali. Chi non ‘pensa’ come ‘noi’ è una destra (o una pseudo-sinistra) che nel migliore dei casi ha perso da tempo l’appuntamento con la storia e sta ferma ad analisi della realtà antichissime, superficiali e fuorvianti; nel peggiore, non appartiene affatto a un qualche «pensiero unico» o «ideologia del medesimo», ma anzi, tutto al contrario: è del tutto priva di pensiero, e si sposa bene alle idee e ai bisogni dei dominati, prigionieri di un mondo esploso in cui non c’è niente da accettare e niente su cui dissentire.

Si potrebbe obiettare che la mia analisi diagnostica fino a questo punto differisce da quella di Fusaro solo per un punto: lui ritiene che ci sia un pensiero unico, e io ritengo che non ci sia niente del genere. Ma non è esattamente così. Io credo che il pensiero unico ci sia, ma non sia affatto un male: quel che vedo come «unico» è la lunga linea del pensiero filosofico che ha sempre accompagnato con alterne fortune le sfortune della democrazia. La mia immagine del conflitto muta di conseguenza. Credo che ci sia da un lato un (buon) pensiero che sta diventando più potente nel mondo, e incomincia a dare filo da torcere ai padroni dell’ingiustizia, dall’altro l’alacre attività di individui stupidi e/o interessati, che se lasciati agire prima o poi distruggeranno il mondo, magari alleandosi nominalmente con i «dominati», per liquidarli con più brio. (In questo senso, c’è qualche ragione nell’ostinata insistenza con cui per esempio Roberta De Monticelli rilancia la «questione morale»: molto – quasi tutto – dipende infatti da come questa si articola alla «questione intellettuale».)

In altri termini io credo che ci sia qualcosa come un «grande dissenso» e credo che stia diventando sempre più evidente e chiaro nel mondo, e usi abbastanza bene (per quanto può) il pensiero unico che gli è stato trasmesso dalla tradizione filosofica. Non è però una immagine hegelianamente ottimistica e come direbbe Fusaro falsamente «rassicurante». Infatti non sono affatto sicura che il pensiero (unico) vincerà, anzi molti segni mi dicono che rischia di esplodere, con tutto il resto. Sono quasi certa però che non ha bisogno di questa nuova «filosofia della prassi» per vincere. Se mai avrebbe – abbiamo – bisogno di conoscere meglio quel che la migliore filosofia oggi e in tutta la sua tradizione dice e ha detto riguardo al modo di lavorare con il pensiero.


3. Se le attività e le idee del pensiero anti-potere potessero coordinarsi, e convergere su programmi comuni, sarebbe estremamente utile. Ma non sono sicura che la linea scelta da Fusaro sia risolutiva, e soprattutto: non sono sicura che scrivere libri di questo tipo, al momento, sia ciò di cui abbiamo bisogno.

Il libro infatti per stile e linguaggio ricalca perfettamente quel modo di argomentare interessante (Fusaro è un ottimo scrittore) ma molto d’autore, che è stato ed è in parte tuttora il requisito distintivo della filosofia detta continentale. Non sono sicura che la convergenza da Fusaro richiesta debba avvenire per questa via. In questo modo infatti si lasciano fuori ampi spazi di pensiero anti-potere che dovrebbe essere arruolato nel «partito» di Fusaro (il nostro, mi permetto di dire), e le persone che abitano questi spazi parlano un altro linguaggio, e caratterizzerebbero l’«indocilità ragionata» in base ad altri e forse migliori argomenti. 

Vorrei allora avanzare due perplessità metodologiche. La prima riguarda l’idea di «riverticalizzare il conflitto» (v. in particolare il cap. 17). Il problema dell’odio che circola nelle società esplose in cui ci capita vivere è senza dubbio un problema grave e reale. La frequenza dell’hate speech nel web è ben nota. Ora la reazione tipica che l’intellettuale medio ha di fronte a tale occorrenza è ricordare il classico principio dei due polli di Renzo Tramaglino: si beccano tra loro, senza rendersi conto che finiranno entrambi in pentola. Dunque si tratta di dire: ‘prendetevela con i padroni, e non con gli altri servi’. Ma non credo che sia così, anzi l’analisi è a mio avviso sbagliata. L’odio è il frutto di rabbia e frustrazione, ma anche direi: di mancanza di pensiero (appunto), e della noia che ne consegue. L’idea di trarre ideologicamente una ‘buona’ ribellione a partire dal potenziale di rabbia che si esprime nel mondo poteva forse funzionare per l’epoca di Marcuse, ma non credo affatto che funzioni oggi.

La mia perplessità è metodologica perché affrontare un problema sociale così complesso sbrigativamente lanciando nuove parole – appunto «riverticalizzare», un termine certo figuralmente efficace – è una tipica operazione da filosofo continentale, che non si ferma mai a chiedersi: ‘ma come si fa poi davvero in pratica?’, e ‘che cosa vuol dire esattamente?’, e ‘come è fatta davvero questa nuova filosofia riverticalizzante?’, ‘e in quale senso le questioni morali e civili non c’entrerebbero per nulla?’ ecc., ma procede spedito, fidando che trovata la parola e buttata nella pagina, il più sia fatto.

In secondo luogo, la mia perplessità riguarda il modo apocalittico di affrontare i problemi che Fusaro condivide con gli altri critici del «pensiero unico» e teorici dell’«altro pensiero». Lo stile apocalittico è un genere di tutto rispetto, ed è giusto oggi, di fronte alle recenti occorrenze del mondo, coltivare una sana preoccupazione. Ma in filosofia, il genere si tramuta in: ‘non c’è niente in giro, nessuno tranne me pensa bene (cioè altrimenti), nessuno riesce a creare concretamente il nuovo Principe’. È davvero così? Forse no. In effetti se parliamo di quanto il ‘pensiero’ di sinistra riesca a tradursi in prassi, le situazioni sono molto diverse. Per esempio, in Italia, come dice Gianni Cuperlo, alla sinistra «mancano le parole per descrivere questo nuovo mondo, e un pensiero per governarlo», e ciò si traduce in un declino oggettivo e irreparabile della classe politica (qualcosa di simile accade in America). Ma in altri luoghi le cose vanno meglio. In Portogallo, una sinistra definita inizialmente geringonça, che vuol dire cosa malcostruita, poco solida, incomprensibile, sta riuscendo a governare piuttosto bene, tenendo fede alle proprie promesse elettorali. Forse il nuovo Principe è una geringonça che pensa in modo assolutamente tradizionale, ma tiene fede agli impegni, e sa come farlo.


4. Come si vede le mie obiezioni non riguardano tanto Fusaro, ma più in generale la teoria dell'"altro pensiero" da contrapporre al «pensiero unico» (e la difficoltà di interpretare il conflitto in questi termini). Di qui vengono le mie perplessità riguardo a quel che il libro dice.

Quel che il libro fa invece mi sembra apprezzabile. Per quel che ne so, esistono libri di filosofia che essenzialmente domandano, altri che rispondono, e altri le cui risposte sono in realtà domande, o richieste. Io credo che Pensare altrimenti sia di quest’ultimo tipo, e credo che la richiesta sia giustificatissima. In tutto il libro infatti si avverte l’esigenza di avere di nuovo una sinistra (o meglio una politica) che sappia pensare se stessa, e dunque una filosofia che sappia fondarla: di avere di nuovo una connected politics, come è stato il marxismo, in tutte le sue varianti (e come erano purtroppo anche il fascismo, il nazional-socialismo, il comunismo sovietico).

Ma più precisamente (e per quel che mi interessa) si avverte il bisogno di avere di nuovo filosofia. Che vuol dire: non il triste spezzatino della specializzazione analitica, e neppure i faticosi e artificiali tentativi di uscirne, che a volte caratterizzano i filosofi analitici contemporanei (penosi scimmiottamenti degli intellettuali pubblici europei, oppure confusissime riproposte di ovvietà supportate da inutili tecnicismi). Avere filosofia e non la ignobile mistura di anti-razionalismo decostruttivo che ha dominato gli ultimi decenni della filosofia continentale del Novecento, e che ancora sopravvive come il segno della cattura dell’autentica ricerca filosofica da parte dell’extrafilosofico. Avere filosofia e non – possibilmente – la pop-celebrazione di insensatezze o alternativamente banalità che caratterizza a volte il lavoro degli intellettuali-filosofi continentali.

Molti accenni nel libro d’altra parte ci dicono che è rivolto non tanto ai «dominati», perché insieme a Fusaro e secondo le sue direttive si organizzino per trasformare come lui dice «l’ira» in programma, ma ai filosofi di oggi, alla loro incapacità di fare quel che hanno sempre dovuto e ancora devono fare, e alle loro ipocrite finzioni di farlo.

Ho una certa pietà per la filosofia contemporanea (analitica o continentale che sia) e di solito cerco di difenderla: persone di grande intelligenza per lo più mortificate da incomprensioni, mancanza di riconoscimenti e mancanza di fondi. Ma la pietà non mi spinge a dimenticare la sua attuale inefficacia per gli scopi per cui dovrebbe lavorare. Forse è questo il problema che dobbiamo concretamente e anzitutto risolvere.


PS Se c’è una speranza di ritrovare la filosofia a mio avviso sta nello stile e nelle intenzioni che hanno guidato una buona parte della tradizione analitica, e nel suo applicarsi alla parte meno narcisista della filosofia continentale. Ma non sono sicura che lo stile e le intenzioni di cui sopra siano sempre rispettati, e ci sono comunque nella filosofia analitica difetti che ancora chiederebbero di venire corretti. Di tutto ciò altrove.