venerdì 30 giugno 2017

Uccidersi per difendere la verità? Perché no?


Intervista a
Nicla Vassallo

Di Riccardo Malatto[1]
Genova, 26/06/2017





Nicla Vassallo, filosofa molto nota in Italia e altrove, si è specializzata al King’s College di Londra ed è attualmente professore ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Genova e associata dell’ISEM–CNR. La sua figura di intellettuale si distingue per l'eleganza intellettuale, il rigore e insieme la chiara consapevolezza della propria funzione pubblica. Il suo pensiero e le sue ricerche scientifiche hanno portato novità rilevanti nei settori dell’epistemologia, della filosofia della conoscenza, della metafisica, dei gender studies.
Autrice, coautrice o curatrice di ben oltre centocinquanta pubblicazioni, della sua importante produzione scientifica, in italiano e in inglese, ci limitiamo a ricordare i volumi più recenti: Filosofia delle donne (Laterza 2007), Teoria della conoscenza (Laterza 2008), Knowledge, Language, and Interpretation (Ontos Verlag 2008), Donna m’apparve (Codice Edizioni 2009), Piccolo trattato di epistemologia (Codice Edizioni 2010), Terza cultura (il Saggiatore 2011), Per sentito dire (Feltrinelli 2011), Conversazioni (Mimesis 2012), Reason and Rationality (Ontos Verlag 2012), Frege on Thinking and Its Epistemic Significance (Lexington–Rowman & Littlefield 2015), Il matrimonio omosessuale è contro natura: Falso! (Laterza 2015), Breve viaggio tra scienza e tecnologia con etica e donne (Orthotes 2015), Meta-Philosophical Reflection on Feminist Philosophies of Science (Springer, New York 2016).
Al presente lavora su diversi aspetti dei rapporti affettivi e amorosi in relazione alle istituzioni, specie eteronormative, e sulla sovrabbondanza, nella nostra società, di semplificazioni stereotipiche riguardo il sex&gender in rapporto alla complessità dell’identità metafisica e dell’identità personale. Inoltre, un tema tuttora costante nella ricerca di Nicla Vassallo, è l'indagine delle questioni legate al problema dell’ignoranza, in che modo si manifesta, quali sono le cause e i modi per porvi rimedio. Ha vinto il premio di filosofia “Viaggio a Siracusa” nel 2011. Dal Fai è stata giudicata la “filosofa italiana dalla brillante carriera internazionale”. Fa parte di consigli direttivi e comitati scientifici presso autorevoli riviste specialistiche, ed è membro attivo di numerose associazioni e fondazioni. Scrive di cultura e filosofia su diverse testate giornalistiche. Ha pubblicato due raccolte di poesie, Orlando in ordine sparso (Mimesis 2013) e Metafisiche insofferenti per donzelle insolenti (Mimesis 2017).
Quella che segue è un’intervista realizzata da uno studente della facoltà di Filosofia di Genova, incentrata sul rapporto tra filosofia e vita: un rapporto in cui Nicla Vassallo crede profondamente, al punto da pensare alla propria stessa vita come un impegno irriducibile alla difesa della verità e della conoscenza, secondo l’insegnamento degli antichi e dei più grandi tra i filosofi.

Al giovane che fa filosofa viene a volte rimproverato dai suoi colleghi iscritti a discipline scientifiche, di rimanere per sempre uno studioso di filosofia, e di non diventare mai un “vero professionista”, ossia un ingegnere, un medico, un avvocato, un fisico, un matematico ecc.

Dipende sempre con chi studia e dove si studia. Mentre in alcuni tempi bui abbiamo avuto l’onore di un Cartesio (filosofo e matematico; al contempo, evoluto nel suo dialogare razionalmente con donne quali la principessa Elisabetta del Palatinato e Cristina di Svezia), oggi, purtroppo, eccezioni a parte, gli scienziati puntano all’iperspecialismo nel proprio settore, e alla fama, e per la filosofia nutrono scarso interesse. E pensare che molti progetti che fisici, ingegneri e professionisti di altro genere hanno portato a termine sono nati, in origine, da idee di filosofi che con loro hanno collaborato. Oppure gli stessi “veri professionisti”, come lei li ha chiamati, hanno indossato un doppio vestito che siamo soliti attribuire a categorie distinte. Albert Einstein, Werner K. Heisenberg forse prima che fisici sono stato filosofi, in molti casi il confine non è tracciabile in modo definito. Se la tendenza dovesse continuare in questa direzione di eccessiva settorialità si avranno sempre meno Oliver Sacks, per citare un altro personaggio che ha speso la sua vita nel dialogo interdisciplinare con la filosofia. Purtroppo anche sul fronte filosofico le cose non stanno procedendo meglio. Troppi scrivono, per esempio, di filosofia della medicina o filosofia della fisica, senza aver mai studiato con la serietà necessaria le scienze in questione. A rimetterci non può che essere la conoscenza. Per fortuna ci sono ancora molte persone che perseverano nel lavoro di qualità, nella convinzione che prima di parlare è bene conoscere e che, rimanendo ancorati alla propria nicchia privilegiata, gran parte di ciò che sappiamo sul mondo ci sfuggirà. Speriamo abbiano il giusto riconoscimento.

A differenza di altri professori, lei si pone in un dialogo costante con suoi studenti, alla Socrate. Perché? Per “mostrarci” cosa significhi fare filosofia indicandoci la strada per diventare filosofi?

Forse perché non sono presuntuosa. Come potrebbe darsi un filosofo vanaglorioso? Non si tratterebbe di un filosofo. E pertanto qui mi ritrovo amica di Wittgenstein quando sostiene che in filosofia si traducono i medesimi antichi pensieri in diversi linguaggi. Il non aspirare a conoscere conduce alla disumanità: lo afferma con nettezza Aristotele sulle forti spalle di Platone, e ancor prima Socrate e con il suo “conosci te stesso”, esortazione religiosa e di sapienza oracolare che troviamo scolpita sul tempio Delfi. Privi di conoscenza e di conoscenza della nostra identità, ci imbeviamo di quella brutalità che pure Dante, ricordando Ulisse, aborriva. Per questo sto pensando a un volume contro l’ignoranza. Ignoranza, tuttavia, non sempre da condannare, quando è origine della consapevolezza di se stessa e si anima del desiderio di venire superata. Confido fermamente nel progresso conoscitivo mio e dei miei studenti. Senza menti che collaborino insieme criticamente e si trasmettano conoscenza per testimonianza ci si ritroverebbe ancora all’età della pietra. Per questo è indispensabile un progresso conoscitivo che riguarda se stessi, l’altro-da-sé e il mondo che ci circonda. Il pensarsi onniscienti o onnipotenti alla Icaro crea invece seri problemi.

Vuol dire in fondo che sta educando un’élite epistemica che poco a che fare con la massa? A cosa ci riferiamo quando parliamo di verità?

La conoscenza è una questione elitaria solo in quanto arricchisce la nostra identità personale, la nostra singolarità, quotidianamente, secondo per secondo: pochi ne prendono atto. Mentre la cultura di massa – “popular culture”, ossia una cultura intrecciata al potere – si collega più alla stereotipizzazione, non alla conoscenza, non alla ricerca della verità. Non voglio assolutamante  educare un'élite epistemica, se con questo temine ci trasciniamo dietro connotazioni negative quali settaria e separata. Lungi da me! Il mio desiderio è diametricalmente opposto. In quanto teorico della conoscenza vorrei diffondere a più larga scala il mio contributo. Purtroppo, però, poche persone scelgono la prima via e troppe si fregiano di sventolare il vessillo della seconda. Sbattiamo ancora il muso sul bivio di Parmenide. Non si può certo dimenticare l’identificazione cristiana della verità con Dio, ben dichiarata nell’affermazione «Io sono la via, la verità, la vita», con tutto il suo contenuto platonico, per cui la verità è proprietà dell’essere o della realtà, Cosicché si parla del vero essere e della vera realtà, come nel linguaggio comune si parla del proprio vero amico. Aristotele limita l’applicazione di “vero” e “falso” al discorso apofantico, ovvero alle proposizioni affermative o negative, cosicché “vero” e “falso” non si possono predicare dei nomi o degli aggettivi, né dei discorsi non apofantici come le preghiere, le domande, i comandi, eccetera. In altre parole, una proposizione è vera se corrisponde a fatti o a stati di cose. Aristotele, invece, esprime con forza questa teoria nel seguente modo (La metafisica, IV, 7, 1011b): «Dire di ciò che esiste che non esiste, o di ciò che non esiste che esiste, è falso, mentre dire di ciò che esiste che esiste, e di ciò che non esiste che non esiste, è vero». Nello scorso secolo egli trova un celebre difensore nel Wittgenstein del Tractatus (4.01): «La proposizione è un’immagine della realtà». La post-verità? Una bufala. La verità relativa? Altra bufala. Bufale di cui la cultura di massa e il potere abusano in ottica opportunistica.

“In tempi in cui la menzogna domina, dire la verità è un atto rivoluzionario”. Questa frase di George Orwell spicca sulla sua pagina web. Perché?

Chi dedica l’intera propria vita ad andare di bolina, ovvero all’insegnamento serio, socraticamente inteso e  con la fatica che questo impegno comporta, seguendo ogni studente singolarmente e lavorando coi giovani migliori, dedicandomi inoltre alla ricerca filosofica più avanzata, scrivendo, studiando… cosa vuole che le dica? Una cosa è garantita: la ricerca della verità oggi è senz’altro un atto rivoluzionario.

Per difendere la verità si ucciderebbe alla pari di Socrate?

Sì, perché no? In verità nel nostro paese il problema del suicidio è ancora aperto. Non possediamo alcuna legge sulla nostra scelta di come e quando morire. Ecco una domanda interessante: esiste un diritto al suicidio? se sì come lo decliniamo in termini di giustizia? Questo non è il momento per rispondere, la risposta potrebbe richidere un'enorme lavoro, è così che si muove la filosofia.  Ma tralasciando questo punto, in realtà ciò che in fondo lei mi sta domandando è: dove finisce la natura e dove inizia la cultura, o meglio dove l’etica inizia a svolgere il proprio ruolo? Sotto il profilo normativo puramente filosofico, il punto alla fine consiste in questo: l’etica si interessa del bene e del male; ma se noi animali umani non possiamo conoscere o non conosciamo il bene e il male, ovvero se non troviamo una risposta allo scetticismo che riguarda l’etica, alla fin fine non possediamo mezzi per tracciare differenze tra brutalità umane e non umane. E poi sarà vero che uccidere non fa parte della natura umana? Provi a dare un’occhiata alla cartina del mondo e si chieda in quanti paesi vengono rispettati diritti umani e civili, in quanti a prevalere è la brutalità.

Ci sono filosofi di cui a lezione fa solo cenni, per esempio filosofi del calibro di Hegel.

Perché lo comprendo poco. Forse un aspetto di Hegel, non troppo deprecabile consiste nella sua idea di matrimonio quale atto etico in cui ci si trasforma in unità spirituale, in «amore cosciente». Ovvero, il matrimonio, a differenza di quanto comunemente si crede, non è un atto di natura contrattuale, bensì meramente consensuale, finalizzato al costituirsi in quanto persona. Mi spiace dover riconoscere che pure Hegel è incapace di spingersi oltre, finendo invece per attribuire il ruolo di capo famiglia al maschio-uomo da cui la femmina-donna dipenderebbe sotto il profilo giuridico. Lo stereotipo è mutato? Con occhio critico-filosofico, proviamo a guardarci attorno…

Filosofia antica o storia della filosofia?

La “poca” filosofica antica da me macinata proviene dalla una certa felice tradizione britannica e da alcune discussioni con l’amica Eva Cantarella nei nostri “paradisi terrestri”. La storia della filosofia? Quì  molti corsi, per antichi retaggi, pur non denominandosi “storia di…” , ancora oggi vengono condotti su manualetti a base storicista. Così lo studente non è indotto a pensare con la propria testa.

Eppure ha coeditato con Franca D’Agostini il libro che porta il titolo di “Storia della filosofia analitica”

Esperienza eccezionale e controcorrente, dato che la filosofia analitica pareva fino a quel punto priva di una storia, di un qualche concatenamento. L’essere controcorrente è sempre una conquista. E lavorare intensamente con Franca mi ha indotto a ritrovare parti di me, che avevo stupidamente tralasciato.

C'è chi la incrimina volentieri di aver mutato più volte pensiero. Forse per una certa sua “sistematica” ribellione?

Ho mutato mano mano  campi di interesse. Ho cominciato occupandomi di Boole e Frege. Oggi mi interesso,  soprattutto ma non solo, di sex&gender studies. Spiegarle questo percorso pulito, privo di svolte drastiche, ci porterebbe via tempo; eppure, è sufficiente leggermi per comprenderlo. Nessuna svolta radicale, per cui respingo chi parla della prima Vassallo, della seconda Vassallo, della terza Vassallo e così via: semplicemente non mi ha mai letto. Al contempo respingo anche l’idea di fissità: fare ricerca su uno stesso tema per l’intera esistenza terminerebbe con l’annoiarmi.

Cosa può dire della sua permanenza al King’s College di Londra? 

Essere entrata in un M-Phil/Ph.D, dove allora si era accettati in dieci al mondo, oltre a un successo, è stata una fatica. Si imparava a essere filosofi. Ci si svegliava presto. Ci si recava a dormire tardi. Avevi un tutor privato e un supervisor, che criticavano i tuoi paper, anche durante il week-end si leggeva e si scriveva. E il sex&gender di apparenza non contava. Mai stata trattata come uno studente. Certe sere capitava che alcuni professori si riunissero a cena per leggere e discutere Dante in italiano e ti invitassero a partecipare. Il venerdì, invece, era la serata del seminarione, ove i temi mutavano spesso. Occorreva preparazione, e così leggevamo gli ultimi paper, dalla filosofia della matematica all’identità personale e via dicendo, e li discutevano con tutti professori e i lecturer. Un simposio. Dopo di che il King’s ci offriva l’aperitivo e con tutti i professori si proseguiva a parlare. Anni dopo, quando questi professori sono divenuti miei colleghi, ero ammessa al loro seminario. Uno di loro metteva apertamente in discussione il proprio paper e tutti gli altri lo criticavano, non per invidia o altro,, ma per aiutarlo a migliorare. Sembrano cose eccezionali e incredibili, soprattuto per chi si è abituato al target universitario delle istituzioni italiane.
Lì non vi era il tempo per “fissarsi”, solo per evolversi. Mi ero recata a Londra, con le mie forze, contro il papere dei nostri locali – “ma cosa ci vai a fare non c’è più Popper? e lassù, Popper, è da tempo bello che dimenticato”-. Il mio progetto di ricerca  riguardava lo psicologismo di Boole e Frege, le leggi del pensiero e le leggi del pensare, eppure loro, accettandolo e accettandomi, avevano visto ben più in là: al naturalismo filosofico contemporaneo, senza dimenticare la metafisica e Cartesio. Tutto ciò mi ha condotto linearmente a interessarmi di filosofie femministe contemporanee (è quasi un dovere in U.K) e di sex&gender.

Ha qualche volume in mente in proposito?

Al riguardo ho scritto migliaia di pagine. E continuo a studiare e scrivere in modo ben poco tradizionale per il nostro paese, sotto il profilo strettamente filosofico. Vi è un paper da rivedere. E un volume collettaneo che spero si realizzerà, a favore, però, della complessità dell’identità personale,. Sono stufa di  questa tendenza ad inscatolare le persone in due stereotipi che fanno comodo solo a chi pensa ben poco, o, come diceva, il mio fantastico insegnante prete di liceo, chi pensa dall’ombelico in giù.

Vuole sfidare Judith Butler?

Non ho mai sfidato nessuno. E non intendo scopiazzare Butler, che, tra l’altro, facendo finta di nulla, evita troppo spesso di nominare chi prima di lei ha espresso, in un linguaggio ben più limpido le sue stesse tesi. E poi questa Butler è troppo apprezzata dalle nostre rappresentati della cosiddetta filosofia della differenza sessuale, che hanno fatto il loro tempo. In ogni caso, rimane una non-filosofa; e difatti a Berkley, dopo aver insegnato retorica, ora, mi pare, insegni letteratura comparata.

Eppure  anche a Lei è attribuita una elevata notorietà.

Non intendo negarlo, ma mi auguro per internazionalità, lungimiranza, onestà, riflessione, rigore nei miei studi e nelle mie ricerche. Umiltà. Non per ambizione. Quest’ultima acceca in filosofia. Corrisponde a una sorta di depilazione mentale.

I suoi maestri?

Maestri? Appigli. I classici. Rimango poi debitrice, da quando mi sono specializzata al King’s College, a “supervisor” d’eccezione, quelli che oggi sono miei  colleghi, quali Cristopher Hughes, David Papineau, Mark Sainbury, Anthony Savile, Scott Sturgeon e ai miei successivi costanti soggiorni londinesi., Un incontro determinante per il mio accrescimento filosofico e umano è stato quello con Jennifer Hornsby, ora al Birkbeck College, nonché Emeritus Fellow del Corpus Christi College, Oxford. In Italia? Francesco Barone (ci scrivevano lettere quasi quotidianamente), Mario Trinchero (ci sentivamo molto spesso al telefono), Carlo Cellucci, per umanità e innovazione, che prosegue con lo scrivere paper e volumi splendidi. E, soprattutto, Eva Picardi, scomparsa da poco: eravamo in disaccordo filosoficamente su quasi tutto e per questo dialogavamo su tutto. Non tuttavia su dignità e su metodologia. Filosofa e amica d’eccezione. Con lei è scomparsa in un attimo metà di me stessa. E’, un giurista per eccellenza, Stefano Rodotà, che mi ha donato il senso del diritto “intransigente”, insieme alla dedizione per l’insegnamento. Anche lui è scomparso, dopo Eva, lasciando un grande vuoto nella mia esistenza, non solo filosofico, pure esistenziale.

Molto di ciò che è, della sua fama, della prof. ribelle che ascolta e si dedica agli studenti si deve allora a Londra e all’U.K. più che all’Italia?

In un certo senso è così, perché a Londra mi hanno insegnato a fare la filosofa e a insegnare in certo “modo”, e questo “modo” le assicuro che qui in Italia implica molta solitudine, ma la gaiezza e il coraggio viene dagli studenti. E poi non creda i nomi italiani che le ho fatto sono sempre stati molto legati all’estero. Il Ph.D. Eva Picardi l’ha ottenuto ad Oxford. E ad Oxford continuava a tornare. Conosceva alla perfezione, oltre l’italiano, l’inglese, il tedesco e leggermente meno il francese: da ciò era assillata. Eppure nel nostro ultimo viaggio filosofico, lei calabrese superlativamente affascinante, esteriormente e interiormente, parlava indifferentemente queste lingue con chiunque, e con la modestia tipica di Oxford, a chi le chiedeva cosa facesse nella vita rispondeva: “studio filosofia”.

Concludo con una domanda personale, ma che forse ci porta a definire il legame tra Lei e L'italia e la filosofia. Dal King’s è tornata “a casa” perché è morta sua madre?

Avevo trent’anni. A Londra mi trovavo bene. Mia madre è morta in pochi minuti a cinquantadue anni per un ictus. Dovevo rientrare, per adempiere alle sue volontà. In molti colleghi, in primis Anthony Savile, mi hanno consigliato di lasciare tutto a Londra. L’Italia, che Antonhy conosce bene, mi avrebbe creato solo sofferenze lavorative da parte di prepotenti di piccole e grandi misure, e così è andata. La mia fortuna? Da qualche anno ho ottimi studenti, e torno a casa, pensando alle loro idee.






[1] Riccardo Malatto (3344903@studenti.unige.it), studente di filosofia presso l'Università di Genova, è uno dei co-autori, insieme a Daniele Bonanzinga Fabio Bergaglio e Federico Mottica, del website “L'ultimo Autunno” in cui si possono trovare pubblicazioni in tema di filosofia, cinema e poesia, proposte da giovani studenti.

lunedì 26 giugno 2017

Considerazioni sul “Progetto PICO” di Giulio Napoleoni


Franca D’Agostini

Giulio Napoleoni ha presentato sul suo blog (https://giulionapoleoni.blogspot.it) un “progetto di sistema collettivo” ispirato a Pico della Mirandola, e il cui obiettivo è la costruzione di una nuova sintesi sistematica prodotta collettivamente. In tale progetto Napoleoni cita con attenzione fedele alcuni miei scritti e alcune mie tesi, e di ciò lo ringrazio, ma non credo di poter condividere il suo obiettivo. Non credo che ci sia davvero bisogno di un nuovo “sistema” filosofico, perlomeno nel senso da lui inteso. Non credo che un “sistema collettivo” pensato secondo le linee da lui suggerite possa avere una qualche utilità o un qualche interesse.
Nel progetto però si esprimono (mi sembra di capire) alcune esigenze che meritano di essere considerate, e su cui merita riflettere, perché sono ampiamente condivisibili. In particolare, suggerirei: la necessità che tutti abbiamo di orientarci in un campo filosofico sempre più complesso e ipertrofico, in cui ridondanza e irrilevanza a volte sembrano dominanti. Ora io cercherò di sintetizzare brevemente le mie ragioni di dissenso, e di chiarire il mio punto di vista sull’argomento.

1. Con PICO Napoleoni manifesta l’esigenza di “tornare a pensare in grande”, come (a suo avviso) si faceva ancora ai tempi di Hegel, e come non si fa più, e non si può più fare oggi. Ciò detto, la “soluzione” al problema è a portata di mano: poiché non si può più pensare in grande da soli, e poiché tuttavia abbiamo ancora bisogno del grande pensiero, occorrerà farlo insieme. Dunque mettiamoci d’accordo, e costruiamo un sistema collettivo che garantisca una “pace filosofica”.
Già su questa premessa avrei qualche perplessità: non mi sembra che Napoleoni spieghi bene che cosa sia il grande pensiero, e perché ne avremmo bisogno. Ma forse è un limite mio. Di qui in avanti però secondo me incominciano i problemi. Non appena Napoleoni entra in dettaglio, l’ipotesi della pace filosofica sfuma via. Il suo infatti è già un pre-sistema filosofico, pronto per essere messo in discussione e per alimentare la non-pace, e soprattutto: concepito in solitudine, con scarsi confronti. (La solitudine è la vera malattia di chi pensa, oggi: nonostante l’apparente concitazione degli scambi comunicativi, sul web e altrove. Ma non sono sicura che l’uscita da tale sgradevole condizione, e cioè il “pensare insieme” che dovrebbe essere il requisito distintivo di qualsiasi scienza, e in specifico della filosofia, sia ottenibile in base a ciò che il progetto PICO suggerisce.)
La conseguenza prevedibile è che le articolazioni del sistema che Napoleoni propone sono discutibili (a occhio, direi: per requisiti opposti di elusività e vastità), e sono prive di rapporto con altre proposte di “sistema” o altre idee di “sistematicità”, con cui l’autore non si confronta. Dummett, per esempio, riteneva che la filosofia analitica dovesse essere sistematica, ma David Lewis, considerato il più “sistematico” tra i pensatori contemporanei, non era affatto convinto che essere un pensatore di questo tipo fosse di per sé una buona cosa. Le discussioni sulla possibilità, impossibilità e sensatezza di costruire sistemi filosofici oggi sono uno dei grandi percorsi tematici di tutta la meta-filosofia successiva a Kant. Ma molto evidentemente dipende da che cosa si intende per “sistema” e “sistematicità”. Tanto il caso di Lewis come l’uso di “sistematico” in Dummett sembrano mettere in gioco qualcosa di molto diverso da quanto è previsto dal progetto di Napoleoni. E lo stesso dicasi per esempio dei “sistemi” di derivazione neopositivista, o neokantiana (per non parlare delle grandi sintesi extra-filosofiche, come quella bio-sociologica, nota anche come «teoria della complessità», o delle proposte di convergenza trasversale legate alle scienze della computazione).

2. Non ho idea di come la proposta di PICO possa essere recepita, ma indicativamente, anche posto che molti rispondano all’invito di Napoleoni, secondo le linee da lui suggerite, e si arrivasse davvero a produrre un collettaneo, a chi potrebbe essere rivolto un testo di questo tipo?
L’idea di Giulio di scrivere un testo “per tutti”, con sezioni “per alcuni” e note “per gli specialisti” è una buona idea, di solito io cerco (cercavo) di scrivere più o meno libri di questo tipo, con destinatari “plurimi”, e mi sembra che altri si muovano secondo le stesse linee. Ma il volume sistematico ipotizzabile a partire dalle sue indicazioni, anche nelle migliori condizioni, sarebbe difficilmente maneggevole, e così privo della gioia dello stile che i suoi stessi autori non vorrebbero nemmeno incominciare a leggerlo. Sarebbe un altro volume collettaneo come moltissimi altri, e più inutile di altri, perché troppo generale. In ogni caso, dubito che una simile operazione possa produrre o anche solo favorire una qualche nascita o rinascita del “grande pensiero” o di quell’idea di filosofia che Napoleoni ritrova in Hegel ma non nei contemporanei, e di cui avverte la mancanza.
Ribadisco: sono dubbi, perplessità, e non certezze. Servono soltanto a segnalare che la mia diagnosi del presente è un po' diversa da quella prevista da Napoleoni. Forse mi sbaglio, ma ho una mezza idea del fatto che un “sistema” delle conoscenze filosofiche (più precisamente, direi, un tentativo di pervenire a una nuova “filosofia prima”) si stia già producendo, benché in modo per ora piuttosto caotico. Per esempio, grazie agli sforzi attuali dei filosofi più consapevoli, che cercano di limitare il numero delle loro produzioni puramente “politiche” (concepite per crescere il numero di pubblicazioni, o trovare credito presso colleghi, o giornali ed editori), e si pongono invece il problema della reale necessità e urgenza dei loro libri e articoli; oppure si impegnano nel tentativo di riflettere metafilosoficamente sul senso di quello che stanno facendo. Grazie alla promozione di borse, grant, fellowship che promuovono ricerche interdisciplinari o applicative; o anche: grazie alla produzione di volumi collettanei e antologie che tentano di fissare il “canone” delle singole discipline, e dei singoli temi…
Non sono sicura che queste e altre iniziative promuovano qualche nuova “grandezza” nel pensiero, ma certo è che se lo scopo è la pace filosofica, e l’uscita dalla solitudine, Napoleoni dovrebbe tenere conto di tutto ciò.

3. Nel progetto PICO si esprime a mio parere un’esigenza latente, che è quella vera, e piuttosto condivisibile, e che è però (mia diagnosi) piuttosto diversa dall’esigenza manifesta. Napoleoni come tutti noi avverte che il campo della filosofia oggi è difficilmente maneggiabile, e che la “grandezza” che troviamo nei classici (a questo si riferisce l’idea di “grande pensiero”?) sembra molto lontana da ciò che la tavola attuale delle discipline filosofiche ci imbandisce con le sue piccolissime porzioni presentate in piatti di ingombrante vastità.
In una breve nota apparsa l’anno scorso sulla rivista American Philosophical Quarterly, dal titolo “Philosophy Without Philosophers”, Nicholas Rescher ha sostenuto che oggi si assiste al fiorire della filosofia (nel senso di: enorme quantità di pubblicazioni di libri e articoli su ambiti specifici delle discipline filosofiche/ crescita impressionante del numero di riviste e società filosofiche tra gli anni ‘70 del Novecento e oggi) unita all’estinzione dei filosofi ovvero dei «pensatori che hanno una filosofia». Secondo Rescher ciò non avviene perché i pensatori di oggi sono «meno bravi», ma perché «le condizioni e circostanze di lavoro hanno cambiato a tal punto la natura dell’obiettivo da renderne la realizzazione impossibile».
Non sono sicura di essere d’accordo con Rescher, ma certo è che l’iper-produzione a cui siamo sottoposti in filosofia come in altre scienze e discipline ci mette di fronte a nuove valutazioni, nuove esigenze e nuovi problemi. In particolare (di qui la perplessità di Napoleoni) rende estremamente difficile orientarsi, e individuare il buon lavoro filosofico, e trovare «la filosofia» nelle cose prodotte da pensatori che, per definizione: «non hanno [né devono avere] una filosofia». La colpa di ciò non è della specializzazione (perché le migliori ricerche in filosofia di solito non sono poi così “specializzate”, e perché la specializzazione crea ridondanza, ma non fa così gran danno). Ma più semplicemente: della crescita di informazione.

4. Ecco dunque quella che credo sia l’esigenza latente nel progetto di Napoleoni. Quando siamo interessati – anche non professionalmente – alla filosofia, siamo particolarmente attratti da una visione continua della realtà (umana naturale sociale culturale) che ci permette di “trovarci a casa” nelle parole di un pensatore. Questa visione continua è piuttosto rara, oggi. Pochi tra gli studiosi contemporanei di filosofia oggi rivelano di possedere un simile punto di vista, e lavorano in questo modo. Nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a pensieri frammentati e paratattici, che possono anche essere interessanti ma non hanno quel quid che ci permette di riconoscere lo specifico filosofico (v. Rescher).
Ora questa visione continua è tipica di un pensatore che fa della sua filosofia, del suo pensiero, della sua ricerca, non soltanto la sua professione ma anche la sua vita. Un pensatore che fa del suo pensiero il suo senso e il suo destino, ed è dunque meno interessato al successo personale o alla riuscita professionale (senza peraltro dover disprezzare l’uno e l’altra) che alla sua propria ricerca di verità, negli ambiti di cui si occupa e in generale.
Rescher non lo dice, ma forse quel che non la specializzazione ma l’attuale sistema della valutazione scientifica ostacola è precisamente questo genere di onestà intellettuale, che ovviamente dovrebbe valere per ogni ricercatore, ma per i filosofi dovrebbe valere a maggior ragione. Perché credo di non sbagliare nel suggerire che la qualità di una ricerca filosofica dipende da questo tipo di impegno più di quanto ne dipendano altre ricerche. Dirò di più: la tradizione ci insegna che ciò che avvertiamo come classici, e ciò che soprattutto ci interessa dei grandi del passato, è precisamente lo stile umano con cui guardavano il mondo, unificandolo nel loro sguardo. Sbagliavano a volte, perché uno sguardo singolo non è mai garanzia di verità. Ma ciò che ci faceva abitare nelle loro parole era precisamente la grandezza del loro pensiero e della loro qualità umana.
Ora io non credo che questo tipo umano sia così raro, e non credo che il genio filosofico conseguente sia un «non so che» talentuoso che non si può insegnare ma viene dall’alto, per imperscrutabile disegno. L’ipotesi su cui bisognerebbe confrontarsi allora non è la pace filosofica tout court, il sistema, il grande pensiero, ma la possibilità di formare noi stessi e i nostri allievi (se ne abbiamo) a questo tipo di lavoro. Capisco però che è un altro discorso.