Si fa un gran parlare di ritorno al
realismo, inteso come la tesi secondo la quale ci sono fatti che non dipendono
dai nostri schemi concettuali e dunque è possibile ristabilire un contatto con
una realtà invariante e non emendabile. A prescindere dall’insoddisfazione
teorica per questa posizione, vorrei spendere due parole sul rapporto tra
realismo – inteso in questa accezione – e politica. Secondo alcuni realisti
esiste un nesso diretto fra rifiuto del realismo e ascesa del populismo: gli
antirealisti rinunciano agli strumenti critici per denunciare le distorsioni
della realtà operate dai populisti. Ne segue che l’adozione di un atteggiamento
realista è una precondizione della critica del populismo.
Quest’idea sembra plausibile per chi
ritiene che solo il realismo possa servirsi in modo appropriato della nozione
di verità, mentre gli antirealisti vengono condannati dalle loro concessioni a
una realtà costruita e dunque, in ultima analisi, cangiante e illusoria. In
risposta vorrei osservare che il problema è quello di stabilire di che nozione
di verità abbiamo bisogno. Il realista, infatti, ipotizzando un modo di oggetti
naturali inemendabili sembra orientato verso una concezione assolutista e
corrispondentista della verità, secondo la quale esiste un’unica descrizione
vera del mondo. Ma, a mio giudizio, concepire la verità in questi termini è
inutile oltre che politicamente pericoloso. È inutile perché quando si tratta
di smascherare i camuffamenti del potere la distinzione tra teorie della verità
di stampo realista o antirealista non viene in causa. In altre parole, quando
si dice, per esempio, che “è vero che Saddam Hussein non disponeva di armi di
sterminio di massa” non credo che il realista intenda qualcosa di diverso
dall’antirealista. Non c’è bisogno di credere in una realtà invariante e
indipendente per afferrare il senso di questa affermazione. Certo, domani
potrebbero emergere nuove prove che ci inducano a ritenere che dopo tutto
Saddam disponeva di armi di distruzione di massa. Ma questa circostanza
vale sia per il realista che per l’antirealista.
Il terreno dove emerge la differenza
tra realismo e antirealismo è in rapporto a questioni normative legate
all’ordinamento dei valori in rapporto il pluralismo che contrassegna le nostre
società postmoderne, caratterizzate da elevati livelli di variabilità
culturale, sociale, linguistica e religiosa. Ma in questo caso la differenza è
tutta a sfavore del realista. Alcune delle questioni più spinose legate alla
convivenza multiculturale (questioni legate all’esibizione dei simboli
religiosi nei luoghi pubblici, alle mutilazioni genitali femminili, alla
regolamentazione dei rapporti familiari) non sembrano risolubili una volta per
tutte. È difficile persino immaginare che esista una soluzione definitiva,
giusta in ogni tempo e luogo. Se il realista pensa di poter trattare i valori
come la realtà esterna, sostenendo cioè che esiste una risposta più corretta di
altre cui tutti dobbiamo conformarci, è passibile di essere tacciato di
fondamentalismo. In relazione al fatto del pluralismo dei valori è
chiaro che l’attenersi a una nozione di verità assoluta non può che esacerbare
la conflittualità, conducendo a uno sterile muro contro muro nel quale è
preclusa ogni possibilità di dialogo o di mediazione. Per questo motivo il
progetto emancipativo realista nasce già vecchio, inscrivendosi nel solco dei
movimenti progressisti della seconda metà del ventesimo secolo, nella contrapposizione
ai poteri forti dell’economia e della politica, ma trascurando del tutto le
esigenze di rispetto delle differenti identità che trovano posto all’interno
dei nostri Stati multiculturali. Meglio è allora adottare un atteggiamento
antirealista o costruttivista, secondo il quale la soluzione da seguire è
quella raggiunta al termine di una discussione multilaterale, governata da
idonee procedure.
Resta il problema dello status delle
procedure che devono permettere la migliore gestione dei conflitti. Possiamo
pensare di sottoporre anch’essi a una discussione il più vasta possibile ma è
chiaro che la scelta delle regole non può essere rinviata indefinitamente. Da
qualche parte bisogna cominciare. Cos’ha da dirci a questo proposito
l’antirealista? Che lo spostamento di attenzione dalla sfera delle decisioni a
quella delle procedure designate per raggiungerle corrisponde a un movimento
più generale cui si può assistere anche rispetto alla realtà naturale,
dall’ambito delle rappresentazioni a quello dei fattori che condizionano la
produzione delle rappresentazioni stesse. Possiamo etichettare questo movimento
come un indebolimento o un ritrarsi della rappresentazione e riflette, se
vogliamo, la dimensione realista dell’antirealismo.
Leonardo Marchettoni