domenica 20 gennaio 2013

Realismo, antirealismo e differenza culturale



Si fa un gran parlare di ritorno al realismo, inteso come la tesi secondo la quale ci sono fatti che non dipendono dai nostri schemi concettuali e dunque è possibile ristabilire un contatto con una realtà invariante e non emendabile. A prescindere dall’insoddisfazione teorica per questa posizione, vorrei spendere due parole sul rapporto tra realismo – inteso in questa accezione – e politica. Secondo alcuni realisti esiste un nesso diretto fra rifiuto del realismo e ascesa del populismo: gli antirealisti rinunciano agli strumenti critici per denunciare le distorsioni della realtà operate dai populisti. Ne segue che l’adozione di un atteggiamento realista è una precondizione della critica del populismo.
Quest’idea sembra plausibile per chi ritiene che solo il realismo possa servirsi in modo appropriato della nozione di verità, mentre gli antirealisti vengono condannati dalle loro concessioni a una realtà costruita e dunque, in ultima analisi, cangiante e illusoria. In risposta vorrei osservare che il problema è quello di stabilire di che nozione di verità abbiamo bisogno. Il realista, infatti, ipotizzando un modo di oggetti naturali inemendabili sembra orientato verso una concezione assolutista e corrispondentista della verità, secondo la quale esiste un’unica descrizione vera del mondo. Ma, a mio giudizio, concepire la verità in questi termini è inutile oltre che politicamente pericoloso. È inutile perché quando si tratta di smascherare i camuffamenti del potere la distinzione tra teorie della verità di stampo realista o antirealista non viene in causa. In altre parole, quando si dice, per esempio, che “è vero che Saddam Hussein non disponeva di armi di sterminio di massa” non credo che il realista intenda qualcosa di diverso dall’antirealista. Non c’è bisogno di credere in una realtà invariante e indipendente per afferrare il senso di questa affermazione. Certo, domani potrebbero emergere nuove prove che ci inducano a ritenere che dopo tutto Saddam disponeva di armi di distruzione di massa. Ma questa circostanza vale sia per il realista che per l’antirealista.
Il terreno dove emerge la differenza tra realismo e antirealismo è in  rapporto a questioni normative legate all’ordinamento dei valori in rapporto il pluralismo che contrassegna le nostre società postmoderne, caratterizzate da elevati livelli di variabilità culturale, sociale, linguistica e religiosa. Ma in questo caso la differenza è tutta a sfavore del realista. Alcune delle questioni più spinose legate alla convivenza multiculturale (questioni legate all’esibizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, alle mutilazioni genitali femminili, alla regolamentazione dei rapporti familiari) non sembrano risolubili una volta per tutte. È difficile persino immaginare che esista una soluzione definitiva, giusta in ogni tempo e luogo. Se il realista pensa di poter trattare i valori come la realtà esterna, sostenendo cioè che esiste una risposta più corretta di altre cui tutti dobbiamo conformarci, è passibile di essere tacciato di fondamentalismo. In relazione al fatto del pluralismo dei valori è chiaro che l’attenersi a una nozione di verità assoluta non può che esacerbare la conflittualità, conducendo a uno sterile muro contro muro nel quale è preclusa ogni possibilità di dialogo o di mediazione. Per questo motivo il progetto emancipativo realista nasce già vecchio, inscrivendosi nel solco dei movimenti progressisti della seconda metà del ventesimo secolo, nella contrapposizione ai poteri forti dell’economia e della politica, ma trascurando del tutto le esigenze di rispetto delle differenti identità che trovano posto all’interno dei nostri Stati multiculturali. Meglio è allora adottare un atteggiamento antirealista o costruttivista, secondo il quale la soluzione da seguire è quella raggiunta al termine di una discussione multilaterale, governata da idonee procedure.
Resta il problema dello status delle procedure che devono permettere la migliore gestione dei conflitti. Possiamo pensare di sottoporre anch’essi a una discussione il più vasta possibile ma è chiaro che la scelta delle regole non può essere rinviata indefinitamente. Da qualche parte bisogna cominciare. Cos’ha da dirci a questo proposito l’antirealista? Che lo spostamento di attenzione dalla sfera delle decisioni a quella delle procedure designate per raggiungerle corrisponde a un movimento più generale cui si può assistere anche rispetto alla realtà naturale, dall’ambito delle rappresentazioni a quello dei fattori che condizionano la produzione delle rappresentazioni stesse. Possiamo etichettare questo movimento come un indebolimento o un ritrarsi della rappresentazione e riflette, se vogliamo, la dimensione realista dell’antirealismo.
Leonardo Marchettoni