domenica 21 maggio 2017

Occasioni mancate: Karl Otto Apel

(questo post è stato pubblicato, in versione un po' diversa, sul Domenicale del Sole 24ore il 28 maggio 2017)

Il 15 maggio, all’età di 95 anni, è morto Karl Otto Apel, un filosofo che non ha mai goduto della fama e della presenza pubblica del suo amico e quasi-coetaneo Jürgen Habermas, ma il cui lavoro ha agito in modo decisivo nella filosofia europea del secondo Novecento (tra l’altro, ispirando ampiamente le teorie di Habermas stesso).

Apel è stato uno dei protagonisti della «svolta linguistica» della filosofia, una svolta che come si sa non è stata un’invenzione dei filosofi analitici, ma ha riguardato tutte le tradizioni filosofiche, più o meno a partire dal tardo Ottocento, e in modo conclamato nei decenni centrali del secolo successivo. Il suo particolare sguardo sul linguaggio nasceva dalla conoscenza profonda della tradizione retorica e filologica del rinascimento italiano, a cui dedicò nel 1963 il volume L’idea di lingua nella tradizione dell'umanesimo da Dante a Vico. E di qui fu indotto a interessarsi all’ermeneutica, la prospettiva filosofica allora nascente (nell’opera di Gadamer, Verità e metodo, del 1960), e più in generale al complesso e multiforme destino del pensiero heideggeriano.

Ma dieci anni dopo, con Transformation der Philosophie (parzialmente tradotto nel 1976 da Gianni Carchia con il titolo Comunità e comunicazione, Rosenberg & Sellier), Apel presentò una sua visione della contemporaneità filosofica che coinvolse un dibattito più ampio e che ancora oggi ha molte cose da dirci.

L’idea di fondo del volume doveva poi diventare un’idea di gran successo, nei decenni successivi, ispirando discussioni critiche, riconsiderazioni e aspre polemiche. Ed era una verità semplice e piuttosto ovvia, anche se storiograficamente imbarazzante: che non esisteva più una filosofia, e neppure ne esistevano molte, ma piuttosto due, due grandi tradizioni, che procedevano da tempo separatamente, i cui esponenti raramente prendevano nota gli uni degli altri; o, se lo facevano, osservava Apel, era per delegittimarsi a vicenda, accusandosi di non essere veri filosofi. Ora le due tradizioni erano la filosofia analitica, in prevalenza diffusa nei paesi di lingua inglese, e la filosofia europea (per Apel soprattutto tedesca), che più tardi si qualificò come «continentale».

Ogni tentativo di organizzare concettualmente il presente ha suoi limiti. Ma che l’idea analitici-continentali fosse ben fondata era abbastanza ovvio, e più tardi fu ampiamente riconosciuto. L’interessante novità era che il «great divide» veniva accolto da Apel come una risorsa, e non come la fonte di un problema. Come l’inizio di una «trasformazione» appunto, e non come una banale ragione di polemica calcistica.

In breve, Apel notava che le raffinate analisi del linguaggio sviluppate dai filosofi analitici avrebbero fornito un utile fondamento a quella rilettura in chiave «linguistica» della filosofia di Kant che si stava avviando un po’ ovunque in Germania (e di cui l’ermeneutica appunto costituiva un’espressione significativa). D’altra parte, l’accesso alla considerazione kantiana della conoscenza, e della filosofia stessa (la «svolta trascendentale», canonica per gli europei e ignota o sottovalutata dai filosofi analitici), secondo Apel avrebbe fornito un’utile fondazione generale e anche una giustificazione di tipo etico e politico, alle disperse teorizzazioni analitiche.

In quegli stessi anni, un altro importante filosofo tedesco, Ernst Tugendhat, nelle sue lezioni sull’analisi del linguaggio (del 1976) partiva da una prospettiva molto simile, anche lui riconoscendo il dualismo delle tradizioni, ma pensando piuttosto che l’incontro tra la logica di Frege e Russell, fonte germinale della filosofia analitica, e l’eredità del kantismo (nella fenomenologia e nell’ermeneutica), avrebbero creato un nuovo paradigma per la nostra considerazione dell’essere, permettendoci di scoprire che il realismo di Aristotele non era affatto incompatibile con Kant.

Nel frattempo, cresceva la fortuna dei filosofi post-strutturalisti francesi, e incominciava anche la mediatizzazione globale della filosofia. La stessa filosofia analitica, in America soprattutto, veniva travolta dal ‘vento’ di una filosofia «continentale» ambiziosa e per molti aspetti affascinante, il cui sperimentalismo provocatorio e la cui programmatica oscurità erano il legato non di Kant, né di Hegel, né della grande tradizione fenomenologica ed esistenziale, ma soprattutto delle avanguardie artistiche della prima metà del secolo, e subordinatamente di Nietzsche e Heidegger. Di qui nacque poi il notissimo postmodernismo, rimbalzato tra Europa e America, poi variamente definito e interpretato e in seguito generalmente vituperato.

Negli anni Ottanta e fino alla metà degli anni Novanta, Apel fu tra i primi e più argomentati oppositori della deriva che il post-strutturalismo aveva subito ad opera della sua trascrizione mediatica e globalizzata. In una serie di scritti Apel rilevava le autocontraddizioni e le insensatezze di tali posizioni, rilanciando una nuova versione dell’antico argomento anti-scettico (che aveva già utilizzato in una famosa polemica con Hans Albert), e parlando di «autocontraddizione performativa».

L’ipotesi di una «trasformazione della filosofia» sembrava piuttosto lontana dal realizzarsi. Piuttosto, sotto il nuovo impulso dell’informatizzazione emergeva potentemente un problema che ha occupato a lungo le opere di Apel e di Habermas negli anni Novanta dello scorso secolo, e che ancora oggi è all’origine di molte nostre difficoltà: il problema dell’etica della comunicazione. A che cosa serve in definitiva far crescere la scienza, cercare un governo giusto, promuovere la pace, fare arte, in una parola, vivere insieme ai propri simili, se non esiste tra noi una speciale cura del linguaggio che ci impedisca di manipolare, ingannare, trasformare mezze verità in totali menzogne?

Nel 1997, promuovendo l’idea di un articolato confronto tra analitici e continentali, Gianni Vattimo (a cui si deve il primo lancio in Italia del lavoro di Apel) scrisse «ciò che sta davanti alla filosofia come suo compito è, dopo la decostruzione, un lavoro di ricucitura e di ricomposizione». Purtroppo, le vicende successive sono andate in direzione diversa, e il programma di Apel rimane una delle nostre occasioni perdute. Forse il problema è ancora quello evidenziato nelle sue ultime opere. Fino a quando l’etica della comunicazione (con le sue recenti sorelle, a cominciare dalla data ethics) non entra nella vita della filosofia stessa, sarà difficile sperare che oggi, in un’epoca in cui trionfano false dicotomie e insensate semplificazioni oppositive, le migliori proposte del Novecento filosofico, e le nostre attuali migliori idee, abbiano voce in capitolo.

Franca D'Agostini