Si
ritiene spesso che la filosofia analitica non abbia nessuna funzione pubblica. Vorremmo
mostrare che così non è. Certo non si tratta di una filosofia “epocale”, tale
cioè da fornire l’interpretazione globale di un’epoca storica o di tutta la
vicenda umana, come possono essere stati il marxismo o l’esistenzialismo; ciò
però non significa affatto che la filosofia analitica non possa avere
un’importante funzione pubblica, in un senso a un tempo più limitato e più preciso
del termine. Essa può infatti aiutarci a capire meglio problemi specifici
rilevanti per decisioni di carattere pubblico. Qui non ci occuperemo di casi di
filosofia politica, ad esempio che cosa debba intendersi per giustizia,
eguaglianza o libertà. Al contrario, cercheremo di abbozzare tre casi
ascrivibili all’alveo della filosofia teoretica e del linguaggio, per mostrare
come una loro comprensione alla luce di un paradigma analitico possa avere
importanti ripercussioni pubbliche.
Primo caso: identità personale - vaghezza. Che cos’è
una persona? Questa domanda solleva grandi interrogativi teorici che hanno una estrema
rilevanza per questioni pubbliche come l’aborto e l’eutanasia. Ma quando
possiamo dire che una persona inizia ad esistere? La difficoltà di rispondere a
questa domanda è dovuta, almeno in parte, al fatto che la nozione di persona è
vaga. Infatti, dopo il concepimento e prima della nascita c'è un periodo in cui
non è chiaro se, il pre-embrione, l'embrione o il feto siano da considerarsi una
persona. Per molti è una questione intrinsecamente indeterminata se in questo
periodo il feto sia una persona o no. Per questioni pratiche – ovvero per avere
una normativa – si è deciso a quale settimana dopo il concepimento il feto
debba considerarsi persona. È però opinione diffusa che vi sia un certo grado
di arbitrarietà in questa decisione. L'arbitrarietà deriva dal fatto che tutto
quello che sappiamo sullo stato fisico dell'embrione (età, condizioni
fisiologiche ecc...) non sembra essere sufficiente a determinare una risposta
alla domanda su quando inizi ad esistere una persona durante questo periodo.
Alla domanda se, ad esempio, al 13° giorno dal concepimento sia presente una
persona, si possono dare risposte evasive come “non direi che la cellula sia
una persona, né che non lo sia”, o “si possono dire entrambe le cose”, o “è una
via di mezzo”. In altre parole, possiamo dire che in questa fase la blastocisti
sia un caso borderline di persona. In
cosa consiste la natura di questi casi borderline? Sono dovuti al significato
della parola “persona” (vaghezza semantica, riparabile con una stipulazione
linguistica), sono un caso di ignoranza di fatti determinati che non possiamo
sapere (vaghezza epistemica, problematica per noi esseri umani non per un eventuale
occhio di dio, ma bisognerebbe credere che esista) o sono i fatti stessi ad
essere indeterminati (vaghezza ontologica, problematica per chiunque e non
rimediabile)? Elaborare una teoria sulla natura della vaghezza ha quindi delle
conseguenze sulla comprensione di questioni, come quella sulla persona, che
hanno un ruolo cruciale nel dibattito pubblico.
Secondo caso: il disaccordo.
Siamo spesso in disaccordo con altri su molte questioni e in tanti casi non è
chiaro chi ha ragione e chi ha torto. Supponiamo di dover pagare il conto di
una cena. Dopo un breve calcolo mentale, affermiamo che dobbiamo dare 25 euro a
testa, ma un nostro amico dice che ne dobbiamo dare 27. Siamo in disaccordo, pur
avendo letto lo stesso scontrino ed avendo le stesse abilità nel compiere semplici
operazioni aritmetiche. L’epistemologia contemporanea di matrice analitica si
chiede: il fatto stesso di essere in disaccordo con qualcuno che ha accesso
alle nostre stesse informazioni deve portarci a rivedere le nostre opinioni?
Cos’è razionale credere in questi casi? Potrebbe sembrare razionale rivedere le
nostre credenze. Dopo tutto, dato che l’amico ne sa quanto noi, non si vede
perché lui debba avere meno probabilità di avere ragione. Persistere nel
disaccordo sarebbe segno di cocciutaggine, non di razionalità; faremmo dunque
meglio a trovare una soluzione comune, come ad esempio sospendere il giudizio
sulla questione. Tuttavia, la sospensione del giudizio è una scelta perniciosa
quando applicata a casi di disaccordo controversi e che ci stanno più a cuore,
come ad esempio un disaccordo sulla liceità morale dell’aborto. Se sospendere
il giudizio fosse la sola opzione razionale, ci troveremmo di fronte a un esito
scettico che lascerebbe poco spazio alla possibilità di compiere progressi
nella comprensione del problema in esame. Disaccordi come quello sulla liceità
morale dell’aborto sono al centro di importanti dibattiti politici e culturali.
Stabilire cos’è razionale credere in casi controversi di disaccordo può quindi giovare
alle azioni politiche e sociali da intraprendere nei confronti di temi così
delicati.
Terzo caso: la testimonianza.
Gran parte della nostra conoscenza dipende dalla testimonianza. Sappiamo che
Napoleone fu sconfitto a Waterloo nel 1815 perché l’abbiamo letto sui libri di
storia; sappiamo che il premier ha detto che l’Europa deve impegnarsi di più
per la crescita perché l’abbiamo letto sui giornali o sentito alla televisione.
Un’idea intuitiva, però, è che sappiamo tutto questo solo nella misura in cui
si può dimostrare che le nostre fonti sono affidabili. Tuttavia, mentre in
alcuni casi è possibile farlo, usando metodi che a loro volta non presuppongono
la testimonianza, in altri è del tutto impossibile. Non possiamo risalire
indietro nel tempo e verificare direttamente l’accuratezza delle testimonianze
storiche su Napoleone; e neppure nel caso del discorso del premier possiamo viaggiare
nel tempo e verificare direttamente quello che ha detto. Al più possiamo solo
confrontare varie testimonianze tra loro, ma non possiamo uscire dal circolo
della testimonianza. E se, per caso, le varie fonti fossero state orchestrate
ad arte, come potremmo, sulla base solo delle testimonianze, scoprire
l’inganno? Di fronte a un tale scenario scettico, dobbiamo forse concludere che
dopo tutto non sappiamo che Napoleone fu sconfitto a Waterloo o che il premier
ha invitato l’Europa a fare di più per la crescita? Se questa conclusione fosse
inevitabile il risultato sarebbe catastrofico, perché a ben guardare una messe
enorme di conoscenze sarebbero solo presunte tali, proprio perché basate, in
ultima istanza, unicamente su fonti testimoniali. Se vogliamo salvaguardare
l’idea che dopo tutto abbiamo (almeno parte del) le conoscenze che riteniamo di
avere, non possiamo fare altro che negare l’assunto di partenza; ovvero che per
essere affidabile la testimonianza debba essere indipendentemente verificabile.
Oggigiorno un intenso dibattito all’interno dell’epistemologia di tradizione
analitica si confronta sul se e come dar senso all’idea che la testimonianza,
al pari della percezione, possa essere una fonte di conoscenza basilare,
mettendo in campo sofisticati strumenti di analisi. Com’è però del tutto
evidente, tale questione è d’importanza cruciale per capire la nostra reale
situazione epistemica, che, oggi più che mai, in un’era d’informazione di
massa, può determinare importanti scelte politiche d’impatto enorme per la vita
dei cittadini.
In
questa breve rassegna abbiamo mostrato la rilevanza pubblica di alcuni temi
oggi molto discussi nell’ambito della filosofia analitica. Non abbiamo fatto
vedere a fondo l’impatto che le diverse risposte a questi quesiti possono avere
su scelte di carattere pubblico. I limiti di spazio di questo intervento non lo
consentono. In ogni caso, il punto fondamentale è che le domande su cui s’interrogano i filosofi analitici, prim’ancora che
le varie risposte che ad esse danno, non sono questioni di lana caprina o sul
sesso degli angeli, ma quesiti centrali per impostare correttamente discorsi di
enorme rilevanza pubblica.
Annalisa Coliva
Sebastiano Moruzzi
Michele Palmira
Concordo con Annalisa Coliva, Sebastiano Moruzzi e Michele Palmira sull’importanza che il dibattito nell’ambito della filosofia analitica su questioni come quelle da essi ricordate possa offrire un prezioso contributo alla discussione pubblica. Gli esempi riportati mi sembrano un’eloquente testimonianza del fatto che le tematiche di pertinenza dei filosofi analitici non si avvolgono in sterili controversie prive di ogni rilevanza per i “non addetti ai lavori”. Il mio intervento è rivolto unicamente a sviluppare un punto sul quale gli estensori del post non si soffermano. Si tratta di questo: il contributo che proviene dai filosofi analitici non può essere in ogni caso visto come un apporto neutrale, strumentale, tecnico, anche nei casi in cui produce l’effetto di chiarire i termini in gioco. In altri termini: non vorrei che si avvalorasse una polarizzazione tra filosofia “continentale”, cui è congenita la formulazione di interpretazioni epocali e di visioni normative, e filosofia “analitica”, segnata da una vocazione strumentale, ancillare, “di servizio”. Contro questa tentazione vorrei sottolineare che anche attraverso dibattiti come quelli che sono stati menzionati vengono veicolate istanze “di parte”, anche al di là della loro “apparente” neutralità. Prendiamo il caso delle teorie della vaghezza. Vi è evidentemente una gran differenza tra vaghezza semantica, epistemica e ontologica, una differenza che, come suggeriscono gli autori, si ripercuote sul tipo di soluzioni che possono essere mobilitate per ovviare ai problemi di categorizzazione. Si tratta di una differenza che si accompagna a una scelta di campo da parte di quanti prediligano un’opzione piuttosto che un’altra. Quindi, se è auspicabile che la prassi della filosofia analitica comporti una riformulazione delle posizioni, portando alla luce le tesi che i vari contendenti si impegnano a difendere, questa riformulazione non si traduce in una sterilizzazione: le assunzioni controverse non scompaiono e non diventano meno controverse per il fatto di venire riformulate nell’idioma analitico. E neanche l’operazione di modellizzazione di un problema nelle categorie filosofiche – analitiche e continentali – può essere vista come un apporto puramente strumentale, altrimenti dovremmo postulare l’esistenza di un contenuto che transita indenne dall’alveo della discussione pubblica nelle canalizzazioni rigide della riflessione filosofica.
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