di Franca D'Agostini
Il recente libro di Diego Fusaro Pensare altrimenti (Einaudi, 2017) tratta un tema che la
letteratura filosofica del Novecento ha frequentato con assiduità: il tema dell’altro pensiero. Più che di un tema, nel
Novecento si trattò di una linea teorica e metodologica ben precisa: la teoria
dell’esistenza di un modo di pensare dominante, storicamente e/o politicamente
(es. la metafisica classica, l’ontologia della presenza, il logocentrismo
occidentale, il patriarcato), a cui occorreva contrapporre un «altro» modo
(migliore, più giusto) di pensare, e conseguentemente di agire e organizzare la
vita associata.
La teoria ha sempre costituito il paradigma di sfondo di ogni
filosofia di sinistra o progressista (più o meno a partire dall’Ideologia tedesca di Marx ed Engels), e Fusaro
ne offre una versione aggiornata, mettendo in opera una prospettiva
filosofico-politica che è andato fissando in questi anni attraverso suoi
precedenti lavori e studi.
In quel che segue, 1. Ricostruisco brevemente gli argomenti
di base del libro; 2. Presento le mie perplessità sul contenuto; 3. Presento le
mie perplessità sul metodo; 4. Interpreto Pensare
altrimenti come una richiesta dell’autore che non deve essere trascurata (e
di qui la ragione per cui ne parlo).
1. Il problema che il libro intende affrontare e risolvere è
l’organizzazione politica del dissenso: operazione estremamente problematica
perché oggi «su tutto si può dissentire», cosicché – si direbbe – il dissenso
(l’altro pensiero) non c’è più, resta solo la funzione del dissentire
perfettamente vuota, che potrà applicarsi a piacere su questo o quell’altro
contenuto, ciascuno dei quali verrà rapidamente neutralizzato dal fatto che si
tratta pur sempre di un dissenso qualsiasi, inglobato nel calderone del
generale dissentire.
Più precisamente, l’idea di Fusaro è che la frammentazione e
pluralizzazione dei dissensi serve a vietare il «grande dissenso» (riformulazione
del «grande Rifiuto» di Marcuse), quello che davvero farebbe paura al pensiero
dominante. Scrive Fusaro: su tutto si può dissentire, «a patto che non si
pervenga mai al grande dissenso verso la violenza economica; e, in modo
convergente, tutto è permesso fuorché pensare e agire in vista di una società
diversamente strutturata». Il vero dissentire verrebbe liquidato a vantaggio di
un dissentire neutralizzato per pluralizzazione individualistica, particolarizzato
e perciò privato di ogni arma politico-sociale. «Il flusso dei dissensi» spiega
Fusaro, riguarda gli individui con i loro interessi, non investe «la dimensione
sociale e la contestazione olistica dell’ordine mercatistico». Ne segue che «la
questione economica è sostituita dalla questione morale, i diritti sociali da
quelli civili, la lotta contro l’ordine ingiusto dal legalismo».
Ciò posto, fissarsi su questioni morali e civili esemplificherebbe
un dissenso fallimentare, il cui unico risultato è se mai l’auto-encomio
dell’anima bella del proponente, e che non sfiora per nulla le vere questioni essenziali.
Ci occorre invece «una grammatica del conflitto condivisa, una vera e propria koinè del dissenso, in grado di […]
attivare una prassi corale, orientata […] alla riapertura del futuro come luogo
della possibilità dell’essere altrimenti» (p. 135). Infatti, dice Fusaro, ci
manca «un orizzonte di senso più grande, che trascenda la dimensione delle singole
rivendicazioni oppositive plurali e irrelate».
Come provvedere e rendere operativa questa visione più
grande? Il progetto si articola in alcune operazioni di base. Anzitutto,
occorre «defatallizzare l’immagine del mondo oggi egemonica». Ciò vuol dire,
suppongo: dimostrare che gli obblighi cognitivi a cui sembriamo sottoposti non
sono veri obblighi, possiamo benissimo farne a meno. Ma più propriamente, si
tratta di produrre «una nuova filosofia della prassi» che tolga «il
coefficiente di inevitabilità» all’immagine della realtà, e «torni a far
brillare la possibilità come cifra ontologica del reale». In secondo luogo,
occorre dare vita a «un moderno principe», inteso come struttura organizzativa
(ma a tratti sembra che Fusaro parli di un leader effettivo) che abbia come
obiettivo primario «l’unione e l’indirizzamento verso l’alto dell’ira politica»
allo scopo di creare «un fronte unitario dell’opposizione al pensiero unico e
all’ideologia del medesimo, al classismo globale e al mito della crescita ai
danni della vita umana e del pianeta».
In terzo luogo, si tratta di «riverticalizzare» il
conflitto, facendolo passare da conflitto orizzontale servo-servo a conflitto
servo-padrone. La nuova filosofia della prassi, e il nuovo Principe, dunque
assumeranno «la prospettiva dei dominati, conferendole voce e portandola alla
piena coscienza», «respingendo il particolarismo ideologico», e «lottando per
quell’imperativo della ragione, a oggi irrealizzato, che è l’universale umano».
Infine, «naturalmente, il potere mobiliterà l’intero quadro
del clero intellettuale e giornalistico e del circo mediatico per mantenere
frammentata la base e in conflitto tra loro gli esclusi, diffamando e
silenziando chiunque proponga la riverticalizzazione del conflitto». Dunque si
tratterà di collocarsi nel «dilemma» di chiunque voglia opporsi all’ideologia
dominante, dice Fusaro, vale dire: cogliere «la possibilità di una
valorizzazione degli strumenti emancipativi del nostro tempo […] che sappia
però sottrarli allo sguardo medusizzante del valore di scambio e all’immediata
riconversione in merce che esso opera» (p. 154).
2. È questa, in breve e se ho ben capito, la proposta di
Fusaro. E consiglierei, nel valutarla, di mantenere distinti quel che Fusaro dice e quel che fa nel dire quel che dice. È una differenza per me importante, che
dovremmo applicare a ogni libro di filosofia che ci accada di leggere.
Quanto a quel che dice, non mi sembra che Fusaro abbia
trovato qualcosa di nuovo rispetto alle migliori elaborazioni del suo tema
proposte nel Novecento e oltre. Questa storia della «grammatica del dissenso» è
il tema costante di tutta la filosofia politica radicale, da Adorno e Marcuse,
al situazionismo e a Deleuze, e più recentemente a Badiou. Le soluzioni di Fusaro
non mi sembrano molto diverse dalle loro, e poiché Fusaro non si confronta con
loro, non capisco in che modo la sua proposta potrebbe ovviare alle difficoltà
che le tesi di questi pensatori hanno lasciato irrisolte.
Più in dettaglio, per esempio Fusaro avverte che il concetto
di dissenso non può essere esaminato more
geometrico, ma poi in pratica quel che propone nel seguito è (o si basa su)
un’analisi concettuale. Ed è un’analisi molto discutibile. A
tratti la nozione di (grande) dissenso si allarga diventando semplice «dire di
no» al potere, e mera «ribellione», poi si precisa come «indocilità ragionata»,
o avversione «alla civiltà dei consumi». Normativamente, deve affermarsi come
«intensità anteriore a ogni concettualizzazione», e tuttavia deve «organizzarsi
coralmente» nella forma di un vero e proprio «partito del dissenso». Tutte
queste contraddizioni fanno parte della dialettica tipica di analisi di questo
genere, ma non è una scusante: avere chiarezza circa la necessità delle
contraddizioni non significa permettersi di averne di ogni tipo. I concetti
(specie questi concetti fondamentali) sono per così dire «costellazioni
paraconsistenti»: insiemi di predicati, alcuni dei quali indicanti proprietà in
conflitto tra loro. Ma il gioco consiste precisamente nel mettere in luce quali
tra questi conflitti sono veri, quali sono dovuti a qualche errore del senso
comune o della tradizione filosofica, e (soprattutto) quali sono dovuti a un
uso distorto, che si è consolidato per ragioni strategico-politiche. Hegel-Marx
facevano sostanzialmente questo, se non vado errata.
Al di là di tutto, il libro di Fusaro non risolve la mia
perplessità nei riguardi delle teorie dell’altro pensiero in generale. Posto che
ci sia un pensiero dominante, come fa
l’altro pensiero a essere altro, visto che se il primo domina, dovrà comunque
starci dentro, e usare le forme del suo dominio? È un’antica difficoltà, che ha
minato dall’interno le critiche novecentesche della ragione, e a cui non mi
sembra che questo lavoro di Fusaro riesca a sfuggire. Il «dilemma» del dissenso
ricatturato dal mercato delle idee (per cui, dice Fusaro, bisogna stare attenti
a che la propria condanna della merce non sia riconvertita in merce) non è solo
un fatto pratico, mi sembra, è anche una questione teorica rilevante. Se
davvero esiste questa «ortodossia dominante», e se davvero è così monolitica, e
corrispondente a un potere ideologico reale, come avviene che invece ci sia
concesso il diritto di parlarne? Non mi sembra che il «dire di no» di Fusaro e
la sua «filosofia della prassi» contengano indicazioni chiare su questo punto. In pratica, la facile lettura del conflitto
in termini di ‘noi-loro’ finisce per dissolvere l’intuizione primaria, circa la
falsa permissività del sistema che hegelianamente accoglie ogni altro, lo
digerisce e lo espelle.
Continuiamo dunque a chiederci: chi è esattamente lo
«stesso», rispetto a cui l’altro dovrebbe definirsi? Come è fatto il «pensiero
unico» a cui Fusaro sempre ritorna come il primo nemico da sconfiggere? La risposta
sta nelle espressioni «ordine mercatistico», «consumismo», «violenza economica».
Formule vaghe, che evidentemente si riferiscono ai padroni del mondo di cui ormai sappiamo quasi tutto, e che oggi,
come spiega bene Noam Chomsky (Who Rules
the World?, 2015), hanno un volto molto chiaramente riconoscibile. Ma se
davvero parliamo dei padroni del mondo, non stiamo parlando di «pensiero» ma
proprio e concretamente di povertà e ricchezza, e iniquità e avidità.
Questo non vuol dire che secondo me non ci sia conflitto, e
che tale conflitto non si ponga anche al livello delle idee. Oggi sappiamo che
il sistema tardo-post-neo-capitalistico è una macchina di iniquità, e per di
più non funziona neppure per gli scopi per cui si intendeva funzionasse. Il
punto piuttosto è che lo sanno anche molti tardo/post/neo/capitalisti, salvo il
fatto che la maggior parte di loro non lo dicono, o lo dicono cercando di
salvarsi la pelle, e giustificandosi con mezze verità che diventano facilmente falsità
totali. Chi non ‘pensa’ come ‘noi’ è una destra (o una pseudo-sinistra) che nel
migliore dei casi ha perso da tempo l’appuntamento con la storia e sta ferma ad
analisi della realtà antichissime, superficiali e fuorvianti; nel peggiore, non
appartiene affatto a un qualche «pensiero unico» o «ideologia del medesimo», ma
anzi, tutto al contrario: è del tutto priva di pensiero, e si sposa bene alle
idee e ai bisogni dei dominati, prigionieri di un mondo esploso in cui non c’è
niente da accettare e niente su cui dissentire.
Si potrebbe obiettare che la mia analisi diagnostica fino a
questo punto differisce da quella di Fusaro solo per un punto: lui ritiene che
ci sia un pensiero unico, e io ritengo che non ci sia niente del genere. Ma non
è esattamente così. Io credo che il pensiero unico ci sia, ma non sia affatto un male: quel che vedo
come «unico» è la lunga linea del pensiero filosofico che ha sempre
accompagnato con alterne fortune le sfortune della democrazia. La mia immagine
del conflitto muta di conseguenza. Credo che ci sia da un lato un (buon) pensiero
che sta diventando più potente nel mondo, e incomincia a dare filo da torcere
ai padroni dell’ingiustizia, dall’altro l’alacre attività di individui stupidi
e/o interessati, che se lasciati agire prima o poi distruggeranno il mondo, magari
alleandosi nominalmente con i «dominati», per liquidarli con più brio. (In
questo senso, c’è qualche ragione nell’ostinata insistenza con cui per esempio
Roberta De Monticelli rilancia la «questione morale»: molto – quasi tutto – dipende
infatti da come questa si articola alla «questione intellettuale».)
In altri termini io credo che ci sia qualcosa come un «grande
dissenso» e credo che stia diventando sempre più evidente e chiaro nel mondo, e
usi abbastanza bene (per quanto può) il pensiero unico che gli è stato
trasmesso dalla tradizione filosofica. Non è però una immagine hegelianamente
ottimistica e come direbbe Fusaro falsamente «rassicurante». Infatti non sono affatto
sicura che il pensiero (unico) vincerà, anzi molti segni mi dicono che rischia
di esplodere, con tutto il resto. Sono quasi certa però che non ha bisogno di questa
nuova «filosofia della prassi» per vincere. Se mai avrebbe – abbiamo – bisogno
di conoscere meglio quel che la migliore filosofia oggi e in tutta la sua
tradizione dice e ha detto riguardo al modo di lavorare con il pensiero.
3. Se le attività e le idee del pensiero
anti-potere potessero coordinarsi, e convergere su programmi comuni,
sarebbe estremamente utile. Ma non sono sicura che la linea scelta da Fusaro
sia risolutiva, e soprattutto: non sono sicura che scrivere libri di questo
tipo, al momento, sia ciò di cui abbiamo bisogno.
Il libro infatti per stile e linguaggio ricalca
perfettamente quel modo di argomentare interessante (Fusaro è un ottimo
scrittore) ma molto d’autore, che è
stato ed è in parte tuttora il requisito distintivo della filosofia detta
continentale. Non sono sicura che la convergenza da Fusaro richiesta debba
avvenire per questa via. In questo modo infatti si lasciano fuori ampi spazi di
pensiero anti-potere che dovrebbe essere arruolato nel «partito» di Fusaro (il
nostro, mi permetto di dire), e le persone che abitano questi spazi parlano un
altro linguaggio, e caratterizzerebbero l’«indocilità ragionata» in base ad altri
e forse migliori argomenti.
Vorrei allora avanzare due perplessità metodologiche. La
prima riguarda l’idea di «riverticalizzare il conflitto» (v. in particolare il
cap. 17). Il problema dell’odio che circola nelle società esplose in cui ci
capita vivere è senza dubbio un problema grave e reale. La frequenza dell’hate speech nel web è ben nota. Ora la
reazione tipica che l’intellettuale medio ha di fronte a tale occorrenza è ricordare
il classico principio dei due polli di Renzo Tramaglino: si beccano tra loro,
senza rendersi conto che finiranno entrambi in pentola. Dunque si tratta di
dire: ‘prendetevela con i padroni, e non con gli altri servi’. Ma non credo che
sia così, anzi l’analisi è a mio avviso sbagliata. L’odio è il frutto di rabbia
e frustrazione, ma anche direi: di mancanza
di pensiero (appunto), e della noia
che ne consegue. L’idea di trarre ideologicamente una ‘buona’ ribellione a
partire dal potenziale di rabbia che si esprime nel mondo poteva forse funzionare
per l’epoca di Marcuse, ma non credo affatto che funzioni oggi.
La mia perplessità è metodologica perché affrontare un
problema sociale così complesso sbrigativamente lanciando nuove parole –
appunto «riverticalizzare», un termine certo figuralmente efficace – è una
tipica operazione da filosofo continentale, che non si ferma mai a chiedersi:
‘ma come si fa poi davvero in pratica?’, e ‘che cosa vuol dire esattamente?’, e
‘come è fatta davvero questa nuova filosofia riverticalizzante?’, ‘e in quale
senso le questioni morali e civili non c’entrerebbero per nulla?’ ecc., ma
procede spedito, fidando che trovata la parola e buttata nella pagina, il più
sia fatto.
In secondo luogo, la mia perplessità riguarda il modo apocalittico di affrontare i problemi
che Fusaro condivide con gli altri critici del «pensiero unico» e teorici dell’«altro
pensiero». Lo stile apocalittico è un genere di tutto rispetto, ed è giusto
oggi, di fronte alle recenti occorrenze del mondo, coltivare una sana
preoccupazione. Ma in filosofia, il genere si tramuta in: ‘non c’è niente in
giro, nessuno tranne me pensa bene (cioè altrimenti), nessuno riesce a creare
concretamente il nuovo Principe’. È davvero così? Forse no. In effetti se
parliamo di quanto il ‘pensiero’ di sinistra riesca a tradursi in prassi, le
situazioni sono molto diverse. Per esempio, in Italia, come dice Gianni Cuperlo,
alla sinistra «mancano le parole per descrivere questo nuovo mondo, e un
pensiero per governarlo», e ciò si traduce in un declino oggettivo e
irreparabile della classe politica (qualcosa di simile accade in America). Ma
in altri luoghi le cose vanno meglio. In Portogallo, una sinistra definita
inizialmente geringonça, che vuol
dire cosa malcostruita, poco solida, incomprensibile, sta riuscendo a governare
piuttosto bene, tenendo fede alle proprie promesse elettorali. Forse il nuovo
Principe è una geringonça che pensa
in modo assolutamente tradizionale, ma tiene fede agli impegni, e sa come
farlo.
4. Come si vede le mie obiezioni non riguardano tanto Fusaro,
ma più in generale la teoria dell'"altro pensiero" da contrapporre al «pensiero unico» (e la difficoltà di interpretare
il conflitto in questi termini).
Di qui vengono le mie perplessità riguardo a quel che il libro
dice.
Quel che il libro fa invece
mi sembra apprezzabile. Per quel che ne so, esistono libri di filosofia che
essenzialmente domandano, altri che rispondono, e altri le cui risposte sono
in realtà domande, o richieste. Io credo che Pensare altrimenti sia di quest’ultimo tipo, e credo che la
richiesta sia giustificatissima. In tutto il libro infatti si avverte l’esigenza
di avere di nuovo una sinistra (o meglio una politica) che sappia pensare se
stessa, e dunque una filosofia che sappia fondarla: di avere di nuovo una connected politics, come è stato il
marxismo, in tutte le sue varianti (e come erano purtroppo anche il fascismo,
il nazional-socialismo, il comunismo sovietico).
Ma più precisamente (e per quel che mi interessa) si avverte
il bisogno di avere di nuovo filosofia.
Che vuol dire: non il triste spezzatino della specializzazione analitica, e neppure
i faticosi e artificiali tentativi di uscirne, che a volte caratterizzano i
filosofi analitici contemporanei (penosi scimmiottamenti degli intellettuali
pubblici europei, oppure confusissime riproposte di ovvietà supportate da inutili
tecnicismi). Avere filosofia e non la ignobile mistura di anti-razionalismo decostruttivo
che ha dominato gli ultimi decenni della filosofia continentale del Novecento,
e che ancora sopravvive come il segno della cattura dell’autentica ricerca
filosofica da parte dell’extrafilosofico. Avere filosofia e non – possibilmente
– la pop-celebrazione di insensatezze o alternativamente banalità che
caratterizza a volte il lavoro degli intellettuali-filosofi continentali.
Molti accenni nel libro d’altra parte ci dicono che è
rivolto non tanto ai «dominati», perché insieme a Fusaro e secondo le sue
direttive si organizzino per trasformare come lui dice «l’ira» in programma, ma
ai filosofi di oggi, alla loro incapacità di fare quel che hanno sempre dovuto
e ancora devono fare, e alle loro ipocrite finzioni di farlo.
Ho una certa pietà per la filosofia contemporanea (analitica
o continentale che sia) e di solito cerco di difenderla: persone di grande
intelligenza per lo più mortificate da incomprensioni, mancanza di
riconoscimenti e mancanza di fondi. Ma la pietà non mi spinge a dimenticare la
sua attuale inefficacia per gli scopi per cui dovrebbe lavorare. Forse è questo
il problema che dobbiamo concretamente e anzitutto risolvere.
PS Se c’è una speranza di ritrovare la filosofia a mio
avviso sta nello stile e nelle intenzioni che hanno guidato una buona parte
della tradizione analitica, e nel suo applicarsi alla parte meno narcisista
della filosofia continentale. Ma non sono sicura che lo stile e le intenzioni
di cui sopra siano sempre rispettati, e ci sono comunque nella filosofia
analitica difetti che ancora chiederebbero di venire corretti. Di tutto ciò
altrove.