Il 15 maggio, all’età di 95 anni, è morto Karl Otto Apel, un
filosofo che non ha mai goduto della fama e della presenza pubblica del suo
amico e quasi-coetaneo Jürgen Habermas, ma il cui lavoro ha agito in modo decisivo
nella filosofia europea del secondo Novecento (tra l’altro, ispirando
ampiamente le teorie di Habermas stesso).
Apel è stato uno dei protagonisti della «svolta linguistica»
della filosofia, una svolta che come si sa non è stata un’invenzione dei
filosofi analitici, ma ha riguardato tutte le tradizioni filosofiche, più o
meno a partire dal tardo Ottocento, e in modo conclamato nei decenni centrali
del secolo successivo. Il suo particolare sguardo sul linguaggio nasceva dalla
conoscenza profonda della tradizione retorica e filologica del rinascimento
italiano, a cui dedicò nel 1963 il volume L’idea di lingua nella tradizione dell'umanesimo da
Dante a Vico. E di qui fu indotto a interessarsi
all’ermeneutica, la prospettiva filosofica allora nascente (nell’opera di
Gadamer, Verità e metodo, del 1960), e più in generale al complesso e
multiforme destino del pensiero heideggeriano.
Ma dieci anni dopo, con Transformation der
Philosophie (parzialmente tradotto nel 1976 da Gianni Carchia con il titolo
Comunità e comunicazione, Rosenberg & Sellier), Apel presentò una
sua visione della contemporaneità filosofica che coinvolse un dibattito più
ampio e che ancora oggi ha molte cose da dirci.
L’idea di fondo del volume doveva poi diventare
un’idea di gran successo, nei decenni successivi, ispirando discussioni
critiche, riconsiderazioni e aspre polemiche. Ed era una verità semplice e
piuttosto ovvia, anche se storiograficamente imbarazzante: che non esisteva più
una filosofia, e neppure ne esistevano molte, ma piuttosto due,
due grandi tradizioni, che procedevano da tempo separatamente, i cui esponenti
raramente prendevano nota gli uni degli altri; o, se lo facevano, osservava
Apel, era per delegittimarsi a vicenda, accusandosi di non essere veri
filosofi. Ora le due tradizioni erano la filosofia analitica, in prevalenza
diffusa nei paesi di lingua inglese, e la filosofia europea (per Apel
soprattutto tedesca), che più tardi si qualificò come «continentale».
Ogni tentativo di organizzare concettualmente il
presente ha suoi limiti. Ma che l’idea analitici-continentali fosse ben fondata
era abbastanza ovvio, e più tardi fu ampiamente riconosciuto. L’interessante novità
era che il «great divide» veniva accolto da Apel come una risorsa, e non come la
fonte di un problema. Come l’inizio di una «trasformazione» appunto, e non come
una banale ragione di polemica calcistica.
In breve, Apel notava che le raffinate analisi
del linguaggio sviluppate dai filosofi analitici avrebbero fornito un utile
fondamento a quella rilettura in chiave «linguistica» della filosofia di Kant
che si stava avviando un po’ ovunque in Germania (e di cui l’ermeneutica
appunto costituiva un’espressione significativa). D’altra parte, l’accesso alla
considerazione kantiana della conoscenza, e della filosofia stessa (la «svolta
trascendentale», canonica per gli europei e ignota o sottovalutata dai filosofi
analitici), secondo Apel avrebbe fornito un’utile fondazione generale e anche
una giustificazione di tipo etico e politico, alle disperse teorizzazioni analitiche.
In quegli stessi anni, un altro importante
filosofo tedesco, Ernst Tugendhat, nelle sue lezioni sull’analisi del
linguaggio (del 1976) partiva da una prospettiva molto simile, anche lui
riconoscendo il dualismo delle tradizioni, ma pensando piuttosto che l’incontro
tra la logica di Frege e Russell, fonte germinale della filosofia analitica, e
l’eredità del kantismo (nella fenomenologia e nell’ermeneutica), avrebbero
creato un nuovo paradigma per la nostra considerazione dell’essere, permettendoci
di scoprire che il realismo di Aristotele non era affatto incompatibile con Kant.
Nel frattempo, cresceva la fortuna dei filosofi
post-strutturalisti francesi, e incominciava anche la mediatizzazione globale
della filosofia. La stessa filosofia analitica, in America soprattutto, veniva
travolta dal ‘vento’ di una filosofia «continentale» ambiziosa e per molti
aspetti affascinante, il cui sperimentalismo provocatorio e la cui
programmatica oscurità erano il legato non di Kant, né di Hegel, né della
grande tradizione fenomenologica ed esistenziale, ma soprattutto delle
avanguardie artistiche della prima metà del secolo, e subordinatamente di
Nietzsche e Heidegger. Di qui nacque poi il notissimo postmodernismo, rimbalzato
tra Europa e America, poi variamente definito e interpretato e in seguito generalmente
vituperato.
Negli anni Ottanta e fino alla metà degli anni Novanta,
Apel fu tra i primi e più argomentati oppositori della deriva che il
post-strutturalismo aveva subito ad opera della sua trascrizione mediatica e
globalizzata. In una serie di scritti Apel rilevava le autocontraddizioni e le
insensatezze di tali posizioni, rilanciando una nuova versione dell’antico
argomento anti-scettico (che aveva già utilizzato in una famosa polemica con
Hans Albert), e parlando di «autocontraddizione performativa».
L’ipotesi di una «trasformazione della
filosofia» sembrava piuttosto lontana dal realizzarsi. Piuttosto, sotto il
nuovo impulso dell’informatizzazione emergeva potentemente un problema che ha
occupato a lungo le opere di Apel e di Habermas negli anni Novanta dello scorso
secolo, e che ancora oggi è all’origine di molte nostre difficoltà: il problema
dell’etica della comunicazione. A che cosa serve in definitiva far crescere la
scienza, cercare un governo giusto, promuovere la pace, fare arte, in una
parola, vivere insieme ai propri simili, se non esiste tra noi una speciale
cura del linguaggio che ci impedisca di manipolare, ingannare, trasformare
mezze verità in totali menzogne?
Nel 1997, promuovendo l’idea di un articolato
confronto tra analitici e continentali, Gianni Vattimo (a cui si deve il primo
lancio in Italia del lavoro di Apel) scrisse «ciò che sta davanti alla
filosofia come suo compito è, dopo la decostruzione, un lavoro di ricucitura e
di ricomposizione». Purtroppo, le vicende successive sono andate in direzione
diversa, e il programma di Apel rimane una delle nostre occasioni perdute.
Forse il problema è ancora quello evidenziato nelle sue ultime opere. Fino a
quando l’etica della comunicazione (con le sue recenti sorelle, a cominciare
dalla data ethics) non entra nella vita della filosofia stessa,
sarà difficile sperare che oggi, in un’epoca in cui trionfano false dicotomie e
insensate semplificazioni oppositive, le migliori proposte del Novecento
filosofico, e le nostre attuali migliori idee, abbiano voce in capitolo.