sabato 11 marzo 2017

Che cosa è il «pensiero unico»? Su Pensare altrimenti di Diego Fusaro


di Franca D'Agostini


Il recente libro di Diego Fusaro Pensare altrimenti (Einaudi, 2017) tratta un tema che la letteratura filosofica del Novecento ha frequentato con assiduità: il tema dell’altro pensiero. Più che di un tema, nel Novecento si trattò di una linea teorica e metodologica ben precisa: la teoria dell’esistenza di un modo di pensare dominante, storicamente e/o politicamente (es. la metafisica classica, l’ontologia della presenza, il logocentrismo occidentale, il patriarcato), a cui occorreva contrapporre un «altro» modo (migliore, più giusto) di pensare, e conseguentemente di agire e organizzare la vita associata.

La teoria ha sempre costituito il paradigma di sfondo di ogni filosofia di sinistra o progressista (più o meno a partire dall’Ideologia tedesca di Marx ed Engels), e Fusaro ne offre una versione aggiornata, mettendo in opera una prospettiva filosofico-politica che è andato fissando in questi anni attraverso suoi precedenti lavori e studi.

In quel che segue, 1. Ricostruisco brevemente gli argomenti di base del libro; 2. Presento le mie perplessità sul contenuto; 3. Presento le mie perplessità sul metodo; 4. Interpreto Pensare altrimenti come una richiesta dell’autore che non deve essere trascurata (e di qui la ragione per cui ne parlo).


1. Il problema che il libro intende affrontare e risolvere è l’organizzazione politica del dissenso: operazione estremamente problematica perché oggi «su tutto si può dissentire», cosicché – si direbbe – il dissenso (l’altro pensiero) non c’è più, resta solo la funzione del dissentire perfettamente vuota, che potrà applicarsi a piacere su questo o quell’altro contenuto, ciascuno dei quali verrà rapidamente neutralizzato dal fatto che si tratta pur sempre di un dissenso qualsiasi, inglobato nel calderone del generale dissentire.

Più precisamente, l’idea di Fusaro è che la frammentazione e pluralizzazione dei dissensi serve a vietare il «grande dissenso» (riformulazione del «grande Rifiuto» di Marcuse), quello che davvero farebbe paura al pensiero dominante. Scrive Fusaro: su tutto si può dissentire, «a patto che non si pervenga mai al grande dissenso verso la violenza economica; e, in modo convergente, tutto è permesso fuorché pensare e agire in vista di una società diversamente strutturata». Il vero dissentire verrebbe liquidato a vantaggio di un dissentire neutralizzato per pluralizzazione individualistica, particolarizzato e perciò privato di ogni arma politico-sociale. «Il flusso dei dissensi» spiega Fusaro, riguarda gli individui con i loro interessi, non investe «la dimensione sociale e la contestazione olistica dell’ordine mercatistico». Ne segue che «la questione economica è sostituita dalla questione morale, i diritti sociali da quelli civili, la lotta contro l’ordine ingiusto dal legalismo».

Ciò posto, fissarsi su questioni morali e civili esemplificherebbe un dissenso fallimentare, il cui unico risultato è se mai l’auto-encomio dell’anima bella del proponente, e che non sfiora per nulla le vere questioni essenziali. Ci occorre invece «una grammatica del conflitto condivisa, una vera e propria koinè del dissenso, in grado di […] attivare una prassi corale, orientata […] alla riapertura del futuro come luogo della possibilità dell’essere altrimenti» (p. 135). Infatti, dice Fusaro, ci manca «un orizzonte di senso più grande, che trascenda la dimensione delle singole rivendicazioni oppositive plurali e irrelate».

Come provvedere e rendere operativa questa visione più grande? Il progetto si articola in alcune operazioni di base. Anzitutto, occorre «defatallizzare l’immagine del mondo oggi egemonica». Ciò vuol dire, suppongo: dimostrare che gli obblighi cognitivi a cui sembriamo sottoposti non sono veri obblighi, possiamo benissimo farne a meno. Ma più propriamente, si tratta di produrre «una nuova filosofia della prassi» che tolga «il coefficiente di inevitabilità» all’immagine della realtà, e «torni a far brillare la possibilità come cifra ontologica del reale». In secondo luogo, occorre dare vita a «un moderno principe», inteso come struttura organizzativa (ma a tratti sembra che Fusaro parli di un leader effettivo) che abbia come obiettivo primario «l’unione e l’indirizzamento verso l’alto dell’ira politica» allo scopo di creare «un fronte unitario dell’opposizione al pensiero unico e all’ideologia del medesimo, al classismo globale e al mito della crescita ai danni della vita umana e del pianeta».

In terzo luogo, si tratta di «riverticalizzare» il conflitto, facendolo passare da conflitto orizzontale servo-servo a conflitto servo-padrone. La nuova filosofia della prassi, e il nuovo Principe, dunque assumeranno «la prospettiva dei dominati, conferendole voce e portandola alla piena coscienza», «respingendo il particolarismo ideologico», e «lottando per quell’imperativo della ragione, a oggi irrealizzato, che è l’universale umano».

Infine, «naturalmente, il potere mobiliterà l’intero quadro del clero intellettuale e giornalistico e del circo mediatico per mantenere frammentata la base e in conflitto tra loro gli esclusi, diffamando e silenziando chiunque proponga la riverticalizzazione del conflitto». Dunque si tratterà di collocarsi nel «dilemma» di chiunque voglia opporsi all’ideologia dominante, dice Fusaro, vale dire: cogliere «la possibilità di una valorizzazione degli strumenti emancipativi del nostro tempo […] che sappia però sottrarli allo sguardo medusizzante del valore di scambio e all’immediata riconversione in merce che esso opera» (p. 154).


2. È questa, in breve e se ho ben capito, la proposta di Fusaro. E consiglierei, nel valutarla, di mantenere distinti quel che Fusaro dice e quel che fa nel dire quel che dice. È una differenza per me importante, che dovremmo applicare a ogni libro di filosofia che ci accada di leggere.

Quanto a quel che dice, non mi sembra che Fusaro abbia trovato qualcosa di nuovo rispetto alle migliori elaborazioni del suo tema proposte nel Novecento e oltre. Questa storia della «grammatica del dissenso» è il tema costante di tutta la filosofia politica radicale, da Adorno e Marcuse, al situazionismo e a Deleuze, e più recentemente a Badiou. Le soluzioni di Fusaro non mi sembrano molto diverse dalle loro, e poiché Fusaro non si confronta con loro, non capisco in che modo la sua proposta potrebbe ovviare alle difficoltà che le tesi di questi pensatori hanno lasciato irrisolte.

Più in dettaglio, per esempio Fusaro avverte che il concetto di dissenso non può essere esaminato more geometrico, ma poi in pratica quel che propone nel seguito è (o si basa su) un’analisi concettuale.  Ed è un’analisi molto discutibile. A tratti la nozione di (grande) dissenso si allarga diventando semplice «dire di no» al potere, e mera «ribellione», poi si precisa come «indocilità ragionata», o avversione «alla civiltà dei consumi». Normativamente, deve affermarsi come «intensità anteriore a ogni concettualizzazione», e tuttavia deve «organizzarsi coralmente» nella forma di un vero e proprio «partito del dissenso». Tutte queste contraddizioni fanno parte della dialettica tipica di analisi di questo genere, ma non è una scusante: avere chiarezza circa la necessità delle contraddizioni non significa permettersi di averne di ogni tipo. I concetti (specie questi concetti fondamentali) sono per così dire «costellazioni paraconsistenti»: insiemi di predicati, alcuni dei quali indicanti proprietà in conflitto tra loro. Ma il gioco consiste precisamente nel mettere in luce quali tra questi conflitti sono veri, quali sono dovuti a qualche errore del senso comune o della tradizione filosofica, e (soprattutto) quali sono dovuti a un uso distorto, che si è consolidato per ragioni strategico-politiche. Hegel-Marx facevano sostanzialmente questo, se non vado errata.

Al di là di tutto, il libro di Fusaro non risolve la mia perplessità nei riguardi delle teorie dell’altro pensiero in generale. Posto che ci sia un pensiero dominante, come fa l’altro pensiero a essere altro, visto che se il primo domina, dovrà comunque starci dentro, e usare le forme del suo dominio? È un’antica difficoltà, che ha minato dall’interno le critiche novecentesche della ragione, e a cui non mi sembra che questo lavoro di Fusaro riesca a sfuggire. Il «dilemma» del dissenso ricatturato dal mercato delle idee (per cui, dice Fusaro, bisogna stare attenti a che la propria condanna della merce non sia riconvertita in merce) non è solo un fatto pratico, mi sembra, è anche una questione teorica rilevante. Se davvero esiste questa «ortodossia dominante», e se davvero è così monolitica, e corrispondente a un potere ideologico reale, come avviene che invece ci sia concesso il diritto di parlarne? Non mi sembra che il «dire di no» di Fusaro e la sua «filosofia della prassi» contengano indicazioni chiare su questo punto.  In pratica, la facile lettura del conflitto in termini di ‘noi-loro’ finisce per dissolvere l’intuizione primaria, circa la falsa permissività del sistema che hegelianamente accoglie ogni altro, lo digerisce e lo espelle.

Continuiamo dunque a chiederci: chi è esattamente lo «stesso», rispetto a cui l’altro dovrebbe definirsi? Come è fatto il «pensiero unico» a cui Fusaro sempre ritorna come il primo nemico da sconfiggere? La risposta sta nelle espressioni «ordine mercatistico», «consumismo», «violenza economica». Formule vaghe, che evidentemente si riferiscono ai padroni del mondo di cui ormai sappiamo quasi tutto, e che oggi, come spiega bene Noam Chomsky (Who Rules the World?, 2015), hanno un volto molto chiaramente riconoscibile. Ma se davvero parliamo dei padroni del mondo, non stiamo parlando di «pensiero» ma proprio e concretamente di povertà e ricchezza, e iniquità e avidità.

Questo non vuol dire che secondo me non ci sia conflitto, e che tale conflitto non si ponga anche al livello delle idee. Oggi sappiamo che il sistema tardo-post-neo-capitalistico è una macchina di iniquità, e per di più non funziona neppure per gli scopi per cui si intendeva funzionasse. Il punto piuttosto è che lo sanno anche molti tardo/post/neo/capitalisti, salvo il fatto che la maggior parte di loro non lo dicono, o lo dicono cercando di salvarsi la pelle, e giustificandosi con mezze verità che diventano facilmente falsità totali. Chi non ‘pensa’ come ‘noi’ è una destra (o una pseudo-sinistra) che nel migliore dei casi ha perso da tempo l’appuntamento con la storia e sta ferma ad analisi della realtà antichissime, superficiali e fuorvianti; nel peggiore, non appartiene affatto a un qualche «pensiero unico» o «ideologia del medesimo», ma anzi, tutto al contrario: è del tutto priva di pensiero, e si sposa bene alle idee e ai bisogni dei dominati, prigionieri di un mondo esploso in cui non c’è niente da accettare e niente su cui dissentire.

Si potrebbe obiettare che la mia analisi diagnostica fino a questo punto differisce da quella di Fusaro solo per un punto: lui ritiene che ci sia un pensiero unico, e io ritengo che non ci sia niente del genere. Ma non è esattamente così. Io credo che il pensiero unico ci sia, ma non sia affatto un male: quel che vedo come «unico» è la lunga linea del pensiero filosofico che ha sempre accompagnato con alterne fortune le sfortune della democrazia. La mia immagine del conflitto muta di conseguenza. Credo che ci sia da un lato un (buon) pensiero che sta diventando più potente nel mondo, e incomincia a dare filo da torcere ai padroni dell’ingiustizia, dall’altro l’alacre attività di individui stupidi e/o interessati, che se lasciati agire prima o poi distruggeranno il mondo, magari alleandosi nominalmente con i «dominati», per liquidarli con più brio. (In questo senso, c’è qualche ragione nell’ostinata insistenza con cui per esempio Roberta De Monticelli rilancia la «questione morale»: molto – quasi tutto – dipende infatti da come questa si articola alla «questione intellettuale».)

In altri termini io credo che ci sia qualcosa come un «grande dissenso» e credo che stia diventando sempre più evidente e chiaro nel mondo, e usi abbastanza bene (per quanto può) il pensiero unico che gli è stato trasmesso dalla tradizione filosofica. Non è però una immagine hegelianamente ottimistica e come direbbe Fusaro falsamente «rassicurante». Infatti non sono affatto sicura che il pensiero (unico) vincerà, anzi molti segni mi dicono che rischia di esplodere, con tutto il resto. Sono quasi certa però che non ha bisogno di questa nuova «filosofia della prassi» per vincere. Se mai avrebbe – abbiamo – bisogno di conoscere meglio quel che la migliore filosofia oggi e in tutta la sua tradizione dice e ha detto riguardo al modo di lavorare con il pensiero.


3. Se le attività e le idee del pensiero anti-potere potessero coordinarsi, e convergere su programmi comuni, sarebbe estremamente utile. Ma non sono sicura che la linea scelta da Fusaro sia risolutiva, e soprattutto: non sono sicura che scrivere libri di questo tipo, al momento, sia ciò di cui abbiamo bisogno.

Il libro infatti per stile e linguaggio ricalca perfettamente quel modo di argomentare interessante (Fusaro è un ottimo scrittore) ma molto d’autore, che è stato ed è in parte tuttora il requisito distintivo della filosofia detta continentale. Non sono sicura che la convergenza da Fusaro richiesta debba avvenire per questa via. In questo modo infatti si lasciano fuori ampi spazi di pensiero anti-potere che dovrebbe essere arruolato nel «partito» di Fusaro (il nostro, mi permetto di dire), e le persone che abitano questi spazi parlano un altro linguaggio, e caratterizzerebbero l’«indocilità ragionata» in base ad altri e forse migliori argomenti. 

Vorrei allora avanzare due perplessità metodologiche. La prima riguarda l’idea di «riverticalizzare il conflitto» (v. in particolare il cap. 17). Il problema dell’odio che circola nelle società esplose in cui ci capita vivere è senza dubbio un problema grave e reale. La frequenza dell’hate speech nel web è ben nota. Ora la reazione tipica che l’intellettuale medio ha di fronte a tale occorrenza è ricordare il classico principio dei due polli di Renzo Tramaglino: si beccano tra loro, senza rendersi conto che finiranno entrambi in pentola. Dunque si tratta di dire: ‘prendetevela con i padroni, e non con gli altri servi’. Ma non credo che sia così, anzi l’analisi è a mio avviso sbagliata. L’odio è il frutto di rabbia e frustrazione, ma anche direi: di mancanza di pensiero (appunto), e della noia che ne consegue. L’idea di trarre ideologicamente una ‘buona’ ribellione a partire dal potenziale di rabbia che si esprime nel mondo poteva forse funzionare per l’epoca di Marcuse, ma non credo affatto che funzioni oggi.

La mia perplessità è metodologica perché affrontare un problema sociale così complesso sbrigativamente lanciando nuove parole – appunto «riverticalizzare», un termine certo figuralmente efficace – è una tipica operazione da filosofo continentale, che non si ferma mai a chiedersi: ‘ma come si fa poi davvero in pratica?’, e ‘che cosa vuol dire esattamente?’, e ‘come è fatta davvero questa nuova filosofia riverticalizzante?’, ‘e in quale senso le questioni morali e civili non c’entrerebbero per nulla?’ ecc., ma procede spedito, fidando che trovata la parola e buttata nella pagina, il più sia fatto.

In secondo luogo, la mia perplessità riguarda il modo apocalittico di affrontare i problemi che Fusaro condivide con gli altri critici del «pensiero unico» e teorici dell’«altro pensiero». Lo stile apocalittico è un genere di tutto rispetto, ed è giusto oggi, di fronte alle recenti occorrenze del mondo, coltivare una sana preoccupazione. Ma in filosofia, il genere si tramuta in: ‘non c’è niente in giro, nessuno tranne me pensa bene (cioè altrimenti), nessuno riesce a creare concretamente il nuovo Principe’. È davvero così? Forse no. In effetti se parliamo di quanto il ‘pensiero’ di sinistra riesca a tradursi in prassi, le situazioni sono molto diverse. Per esempio, in Italia, come dice Gianni Cuperlo, alla sinistra «mancano le parole per descrivere questo nuovo mondo, e un pensiero per governarlo», e ciò si traduce in un declino oggettivo e irreparabile della classe politica (qualcosa di simile accade in America). Ma in altri luoghi le cose vanno meglio. In Portogallo, una sinistra definita inizialmente geringonça, che vuol dire cosa malcostruita, poco solida, incomprensibile, sta riuscendo a governare piuttosto bene, tenendo fede alle proprie promesse elettorali. Forse il nuovo Principe è una geringonça che pensa in modo assolutamente tradizionale, ma tiene fede agli impegni, e sa come farlo.


4. Come si vede le mie obiezioni non riguardano tanto Fusaro, ma più in generale la teoria dell'"altro pensiero" da contrapporre al «pensiero unico» (e la difficoltà di interpretare il conflitto in questi termini). Di qui vengono le mie perplessità riguardo a quel che il libro dice.

Quel che il libro fa invece mi sembra apprezzabile. Per quel che ne so, esistono libri di filosofia che essenzialmente domandano, altri che rispondono, e altri le cui risposte sono in realtà domande, o richieste. Io credo che Pensare altrimenti sia di quest’ultimo tipo, e credo che la richiesta sia giustificatissima. In tutto il libro infatti si avverte l’esigenza di avere di nuovo una sinistra (o meglio una politica) che sappia pensare se stessa, e dunque una filosofia che sappia fondarla: di avere di nuovo una connected politics, come è stato il marxismo, in tutte le sue varianti (e come erano purtroppo anche il fascismo, il nazional-socialismo, il comunismo sovietico).

Ma più precisamente (e per quel che mi interessa) si avverte il bisogno di avere di nuovo filosofia. Che vuol dire: non il triste spezzatino della specializzazione analitica, e neppure i faticosi e artificiali tentativi di uscirne, che a volte caratterizzano i filosofi analitici contemporanei (penosi scimmiottamenti degli intellettuali pubblici europei, oppure confusissime riproposte di ovvietà supportate da inutili tecnicismi). Avere filosofia e non la ignobile mistura di anti-razionalismo decostruttivo che ha dominato gli ultimi decenni della filosofia continentale del Novecento, e che ancora sopravvive come il segno della cattura dell’autentica ricerca filosofica da parte dell’extrafilosofico. Avere filosofia e non – possibilmente – la pop-celebrazione di insensatezze o alternativamente banalità che caratterizza a volte il lavoro degli intellettuali-filosofi continentali.

Molti accenni nel libro d’altra parte ci dicono che è rivolto non tanto ai «dominati», perché insieme a Fusaro e secondo le sue direttive si organizzino per trasformare come lui dice «l’ira» in programma, ma ai filosofi di oggi, alla loro incapacità di fare quel che hanno sempre dovuto e ancora devono fare, e alle loro ipocrite finzioni di farlo.

Ho una certa pietà per la filosofia contemporanea (analitica o continentale che sia) e di solito cerco di difenderla: persone di grande intelligenza per lo più mortificate da incomprensioni, mancanza di riconoscimenti e mancanza di fondi. Ma la pietà non mi spinge a dimenticare la sua attuale inefficacia per gli scopi per cui dovrebbe lavorare. Forse è questo il problema che dobbiamo concretamente e anzitutto risolvere.


PS Se c’è una speranza di ritrovare la filosofia a mio avviso sta nello stile e nelle intenzioni che hanno guidato una buona parte della tradizione analitica, e nel suo applicarsi alla parte meno narcisista della filosofia continentale. Ma non sono sicura che lo stile e le intenzioni di cui sopra siano sempre rispettati, e ci sono comunque nella filosofia analitica difetti che ancora chiederebbero di venire corretti. Di tutto ciò altrove.

1 commento:

  1. Brevi considerazioni. Dalla recensione della prof D'Agostini emerge che lo scopo del saggio del prof Fusaro è quello di rilenciare le ragioni del marxismo e dell sue successive filiazioni. Tali rilancio avrebbe due funzioni: 1) smascherare il preteso "realismo" che farebbe coincidere una realtà storica con la "realtà"; 2) mostrare che il "realismo" di un mondo possibile. Quando il sottoscritto era giovane, negli anni '70, viveva, assieme a molti altri, immerso, per così dire, nell'anticapitalismo, anche se, è bene notarlo, diversi rivoluzionari dell'epoca non disdegnavano certo un buon numero di opportunità che l'economia di mercato offriva loro e sospetto che non sarebbero sopravvissuti più di un anno a Mosca e di sicuro meno di qualche mese a Pechino. A distanza di oltre quarant'anni, l'anticapitalismo sembra virtualmente scomparso. Come mai? E' una domanda preliminare ed ineludibile, alla quale bisognerebbe tentare di rispondere. Prima facie siamo di fronte ad una vittoria culturale del "pensiero capitalista", etichettiamolo così, che segue ad una vittoria economica. Nè l'una né l'altra sono "per sempre" ma per ora le cose sembrano stare così. Tali vittorie, ipotizzo, non sono state ottenute grazie alla resa degli oppositori ma per ragioni "oggettive". In questa sede mi limito solo a presentare una tesi, che naturalmente andrebbe argomentata. E' molto probabile, sempre limitandosi alla presentazione di un discorso, che la dicotomia "capitalismo sì/capitalismo no", sia apparente, una fallacia, di quelle individuate dalla teoria dell'argomentazione. Ovvero: anche se sono stufo dell'alluvione pubblicitaria in TV non è detto che la soluzione consista nella scomparsa dell'economia di mercato e della pubblicità come tale. Nella sua recensione, la prof D'Agostini evoca un buon pensiero che si fa strada nel mondo. A chi si riferisce? Non mi è chiaro. Nel finale, rilancia un tema a lei caro: superare la vecchia diatriba "analitici-continentali" in filosofia, per dare vita ad una "filosofia nuova"- viroglette mie- che si nutra delle parti migliori di entrambe le tradizioni. Ottimo proposito, che va al di là, credo, delle tematiche presentate nel saggio del Fusaro. Questo è quanto, nei limiti di un modesto commento.

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